Buon giorno a tutti.
Questo blog era fermo da qualche anno.
Vorremmo ridargli vita dandogli una funzione
un po' diversa, quella di BACHECA,
dove chiunque tra i nostri soci e amici
possa postare direttamente considerazioni,
pensieri, suggestioni, filmati, propri o altrui.
Qui le istruzioni per l'uso.
Visitate anche la nostra pagina Facebook



venerdì 30 ottobre 2009

Barbara Schiavulli al Binario 7 per Novaluna

di primo


Quando Barbara Schiavulli ha finito di parlare e di mostrarci le fotografie (alcune molto crude), sono cominciate le domande, senza bisogno di sollecitarle. Tante. Si è vista la difficoltà di comunicazione che affiorava in mezzo all'empatia (Barbara è anche enfant du pays, a Monza). Un giornalista di guerra è interessato al come, mentre noi siamo interessati ai perché, magari per confermare i perché che ci siamo dati da sempre. Qualche perché ci vuole, tranquillizza, ci fa credere che la situazione sia sotto controllo, o comunque controllabile in futuro.
Un dato positivo: c'è stata solo una domanda (chiamiamola così) in cui si diceva che per colpa degli americani etc etc. Qualche anno fa ce ne sarebbero state tante, di domande così.
Altro dato positivo: nessuno o quasi crede più alla favoletta della democrazia d'esportazione. In Afghanistan la risoluzione dei problemi (ammesso che esista) dovrà passare attaverso il consenso dell'Iran e del Pakistan, se no, niente da fare.
E allora, gli americani? Barbara l'ha detto alla fine, cosa stanno facendo gli americani, sia in Afghanistan che in Iraq: alcune basi militari molto vaste, inattaccabili, da cui non se n'andranno MAI. Al loro posto, farei esattamente la stessa cosa.
Il titolo della conferenza metteva in ballo le elezioni, col prossimo ballottaggio, ma è apparso chiaro che i brogli sono sistematici e che si farà in modo che vinca Karzai contro un oppositore che si atteggia a uno stile gandhiano. Gara dura, in un paese in cui il kalashnikov non si nega a nessuno e in cui le donne vanno benissimo per trasportare munizioni sotto lo chador. La guerra perpetua è nel carattere del paese e degli abitanti, diverse etnie che non si possono soffrire l'una con l'altra.
Un bel mestiere è quello degli autisti e dei traduttori al servizio dei giornalisti.
Barbara si è trovata ad averne uno sciita e l'altro sunnita, e doveva ogni tanto mettere pace se no si menavano in macchina. Non sono fatterelli di colore: gli autisti ed i traduttori guadagnano molto, ma in caso di rapimento del giornalista la loro vita vale zero, mentre quella del giornalista vale i soldi che qualcuno pagherà per il riscatto. Credo di aver capito perché quel paese piaccia tanto a Barbara: fuori da Kabul e da qualche altra città, non si piomba nel terzo mondo, ma direttamente nel medioevo, che può avere il suo bello, il suo fascino, le sue regole, mentre il terzo mondo è solo brutto e sregolato. L'atteggiamento della giornalista era di apertura sui casi spesso tragici di persone (quasi sempre donne e bambini) che ha trovato e trova lungo la sua strada. Molto più riservata quando doveva parlare dei soldati italiani, lodati per le loro qualità di socializzazione molto più grande di quella dei tedeschi, francesi, inglesi. Sarà certamente vero, ma oggi, essere in Afghanistan, vuol dire aver concordato precise regole di ingaggio. La modalità di procedere (accordarsi con l'imam locale sulla base delle sue priorità) sarà probabilmente l'unica possibile, ma non vedo cosa c'entri con la democrazia.
Previsioni del tempo: i taliban torneranno al potere, solo che quelli di oggi sono peggio di quelli di qualche anno fa, che distruggevano i campi di papavero. A questi, la droga sta bene. Si stanno dando da fare anche i cinesi, non poteva essere che così. Però l'osservazione più utile l'ho sentita tornando a casa: è vero che l'Afghanistan è sempre stato un crocevia, ma questo era importante quando i mezzi aerei non erano così diffusi. Oggi molto meno, se non c'è di mezzo il petrolio.
Il tribalismo, più etnico che religioso, continuerà. Il dramma è per le donne e per i bambini che, nelle città, stanno sperimentando una vita diversa, senza che qualche marito, stanco della moglie trentenne e con sei figli, la ripudi per adulterio, tagliandole il naso. Abbiamo visto le fotografie delle donne e dei chirurghi che stanno ricostruendo i nasi.
Però non è mai detto: in un'altra foto c'era un afghano che si sta facendo ricco vendendo libri, vecchi, nuovi, tutti i libri che gli capitano fra le mani: prezzi d'affezione: 50 dollari al libro, il mercato tira, chissà. "Imparare a leggere e a scrivere, quella è la strada", così ha concluso Barbara.


P.S. Le immagini sono dell'archivio fotografico di Barbara Schiavulli.

5 commenti:

edomonza ha detto...

Molto comleta e obbiettiva la tua relazione-commento sulla serata con Barbara: secondo me è stata un pò guastata da alcuni interventi
del pubblico tesi a chiederle conferma dei propri pre-giudizi piuttosto semplicisti, per una situazione che è tutto, ma non semplice.
per non parlare di alcuni accostamenti ai partigiani di Via Rasella, che mi sono parsi completamente fuori luogo, se non addirittura offensivi.

Solimano ha detto...

Grazie Edoardo.
Concordo con quello che dici.
Una domanda deve essere una domanda, non un giudizio, ancor meno un pre-giudizio.
Specie in un argomento in cui è chiaro che non ci sono soluzioni facilmente praticabili.
Quasi si sentiva dal tono di voce se sarebbe uscita una domanda o una falsa-domanda. Ma forse esagero. Se si vogliono delle risposte, occorre, come minimo, porre (e porsi) le domande giuste.

saluti
Primo

Anonimo ha detto...

io invece sono rimasto piuttosto soddisfatto della qualità del dibattito,
ho visto e sentito grande interesse per la testimonianza diretta,
ho apprezzato la posizione di testimone-non-prevenuto della nostra ospite.
sono invece un po' preoccupato perché la serata
avrebbe meritato una maggior affluenza di pubblico,
e mi chiedo cosa possiamo fare
per migliorare l'organizzazione e la comunicazione.

ottavio ha detto...

Quello che più mi ha colpito nell’esposizione di Barbara Schiavulli è l’assenza di prospettive riguardo al futuro dell’Afghanistan. C’è evidentemente un’ipotesi di fondo che contempla la fine dei combattimenti e una qualche forma di democrazia, che magari coinvolga i nemici di oggi, ma la data di realizzazione di questa ipotesi non è ancora definibile, comunque lontana (e dunque la nostra generazione, quella degli ultrasessantenni per intenderci, forse non riuscirà a vederla).
Ecco perchè, ad esempio, gli americani installano una o più basi “permanenti” (e questa è una notizia di Barbara!), come hanno fatto in Iraq, d’altronde.
Quello che non si prende in considerazione, quando si intraprende un’avventura come questa (si fa la guerra ad un Paese sottosviluppato) è la differenza di senso del tempo (e altro) tra un occidentale e un asiatico. L’Afghanistan è in guerra dagli anni ’80, dal colpo di stato filorusso che ne ha scosso gli equilibri tribali e interetnici, dunque sono più di trent’anni. In Vietnam si è combattuto dagli anni ’50 ai ’70, dalla guerra di liberazione contro i Francesi a quella contro gli Americani. Là il conflitto è terminato solo con la sconfitta di una delle parti.
Per fare un esempio di “incomprensione” basta citare le corrispondenze dal Vietnam di un inviato veramente speciale, Goffredo Parise. Parise descrisse i vietnamiti come persone che avevano la guerra nel sangue, e quindi non si sarebbero mai fermati dal farla, contro chiunque, all’interno del loro Paese o aggredendo i vicini. Peccato che non sia vissuto abbastanza per vedere il Vietnam diventare una delle tigri asiatiche e diventare fornitore delle grandi aziende di distribuzione internazionale (visitare l’IKEA per credere!).
Per tornare all’Afghanistan mi chiedo fino a quando (il senso del tempo!) l’opinione pubblica occidentale è disposta ad accettare la situazione senza la percezione di visibili progressi. O un proseguimento sine die del conflitto porterà ad un collasso psicologico degli “alleati”?

Giorgio Casera

Solimano ha detto...

L'osservazione finale di Giorgio coglie il punto vero, che politicamente si fa finta di non vedere: che senso ha restare in un paese senza avere nessuna possibilità reale di controllo del territorio? O direttamente o attraverso truppe di qualche ras locale, tenuto buono con concessioni di ogni tipo.
La scelta degli americani ha una sua chiarezza, una finalità, certamente discutibile, ma con dei vantaggi evidenti. Quindi dipenderà dall'opinione pubblica dei paesi che hanno là i soldati.
Bella anche l'osservazione sui vietnamiti, anche se spesso è la minoranza cinese quella che conduce gli affari nelle tigri asiatiche.

saluti
Primo