Buon giorno a tutti.
Questo blog era fermo da qualche anno.
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dove chiunque tra i nostri soci e amici
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lunedì 30 novembre 2009

Pezze da piedi (B.P.)

di roberto

Esaurito questo ulteriore ciclo di incontri ed esaurito in maniera scoppiettante resta da vedere il programma futuro della nostra associazione. Alberto chiedeva impegno ai soci per far impennare le sorti di Novaluna, constatando la facile imitabilità della formula "serata con..". Bene.

"Quali garanzie offre questo Stato per quanto attiene all'applicazione del diritto,della legge,della giustizia?Quali garanzie offre contro l'abuso di potere, l'ingiustizia? Nessuna. L'impunità, che copre i delitti commessi contro la collettività e contro i beni pubblici, è degna di un regime di tipo sudamericano: neppure uno dei grandi scandali scoppiati in trent'anni ha avuto un chiarimento...in ogni città e in ogni villaggio è possibile compilare un lungo elenco di malversazioni, di casi di concussione e di abusi rimasti impuniti....."Scritto trent'anni fa.

Vogliamo parlare del metodo mafioso divenuto sistema di intrapresa e di controllo ormai non solo nel sud Italia? Del potere illimitato sempre più in mano di pochi impegnati a regolare interessi propri in stretta vicinanza con figure discusse (utilizzate per l'accesso a quel potere o utilizzatrici finali di quel potere?)

Credo che il salto lo si possa fare parlando, continuando a parlare di quella che sembra essere la degradazione dello stato democratico illiberale italiano. Facendoci aiutare da chi questo tema lo tratta quotidianamente e impegnandoci a farlo diventare un laboratorio aperto a provocazioni ed esperimenti. Uscendo da questo silenzio rotto solo da poche voci distanti fra loro e messe in condizione di rimanere inascoltate. Facendo rete come si usa dire e controinformazione come si usava dire. Non c'è bisogno di utilizzare categorie del passato per sottolineare la miseria umana e morale di questo momento. Pippo Del Bono ha detto che l'Italia è un paese di merda. Sottoscrivo e aggiungo: vogliamo provare a fare qualcosa?

Roberto




sabato 28 novembre 2009

Il giorno della Civetta

di toti


Ho rivisto qualche sera fa, lo davano alla 7, Il giorno della civetta, il dignitoso – non un capolavoro – film di Damiano Damiani, basato sul notissimo romanzo di Leonardo Sciascia.

Ma non voglio parlare del film. Voglio parlare invece dell’effetto che mi ha fatto il rivederlo. L’avevo visto, il film, una quarantina d’anni fa, più o meno quand’era uscito. E dopo, solo dopo, avevo letto il romanzo.

Alle prime immagini mi è venuto il sospetto che si trattasse di un altro film, non quello di Damiani. Il primo episodio, quello dell’uccisione di Colasberna, da cui si dipana poi tutto il film, mi sembrava tutto diverso da come lo ricordavo: Colasberna veniva ucciso mentre era alla guida di un grosso camion da cantiere. Che qualcun altro, oltre a Damiani, si fosse cimentato nella trasposizione in film dello stesso romanzo?

Ma mi resi presto conto che non era così. Gli attori erano gli stessi: Franco Nero nella parte del capitano dei carabinieri, e sopratutto una giovane e bellissima Claudia Cardinale, per la verità non sempre brillantissima nella recitazione. Il film dunque era proprio quello che avevo visto a suo tempo.

Perché allora avevo avuto quell’impressione? E come mai le immagini del primo episodio – solo di quell’episodio, ché il resto corrispondeva al mio ricordo – mi sembravano diverse?

Questi interrogativi mi vennero in mente più volte durante il film, ma non riuscivo a trovare le risposte. Così, finito lo spettacolo, cercai il romanzo, e trovatolo, cominciai a leggerlo. Mi bastarono poche righe dopo l’incipit per capire. Queste:

Il bigliettaio chiuse lo sportello, l’autobus si mosse con rumore di sfasciume. L’ultima occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza, colse l’uomo vestito di scuro che veniva correndo; il bigliettaio disse all’autista – un momento – e aprì lo sportello mentre l’autobus ancora si muoveva. Si sentirono due colpi squarciati: l’uomo vestito di scuro, che stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella lentamente si afflosciò.

Ecco, era questa la scena che ricordavo dell’uccisione di Colasberna. Ma non era quella del film. Semplicemente, nella mia memoria la sequenza cinematografica era stata sostituita da quella descritta da Sciascia. Forse perché è una descrizione magistralmente breve, e proprio per questo di grande efficacia. Un vero pezzo di bravura, che in pochissime parole rappresenta la morte del malcapitato con un ralenti così straziantemente lungo che – credo – nessuna macchina da ripresa avrebbe potuto far meglio.

Scherzi della memoria.

venerdì 27 novembre 2009

Boris Pahor al Binario 7 per Novaluna

di primo

Boris Pahor

Ci sono due modi assai diffusi, di essere uomini di cultura.

Quello del grillo parlante, che ha sempre da dire la sua su tutto, che ha tutte le risposte. Che soprattutto non teme smentite: lui guarda in avanti, cosa volete che gliene freghi delle smentite dei fatti alle sue asserzioni precedenti? Lui non sbaglia mai, per definizione, è uno che, per riprendere una infelicissima frase di Pajetta, fra la verità e la rivoluzione sceglie la rivoluzione.

Quello del dubitante sistematico, privo di certezze, e ci può stare, ma privo soprattutto di voglia di certezza. Utopista, di una utopia proprio etimologica, di nessun luogo. Occhiuto sul nuovo, purché non si sia mai sentito, un nuovo però che comincia a passare di cottura già il giorno dopo. Diventa seminuovo, fra un mese lo troviamo fra i saldi di fine stagione, una stagione che però non è mai cominciata.

Per fortuna c'è il modo di cui Boris Pahor ha dato prova ieri sera al Binario 7, di fronte ad una sala affollata per la quarta conferenza di Novaluna.

Quello di esplorare le contraddizioni, perché in ogni momento storico esistono, spesso irresolubili in quel momento, ma se le cogli apri la strada a nuovi momenti con nuove contraddizioni. Ma soprattutto, quello di raccontare queste contraddizioni attraverso la testimonianza di una esistenza, la sua, lunghissima, tragica, eppure (contraddizione!) felice.

Un esempio, apparentemente il più piccolo. A Parigi, lo sappiamo, Boris Pahor lo portano in palma di mano, gran bella cosa. Eppure, ieri sera ci ha raccontato come li ha lasciati sbalorditi durante i festeggiamenti, accusandoli del difetto di francofonia a prescindere (cosa che sappiamo tutti essere vera, salvo i francesi).

Ed ha fatto rizzare le orecchie a tutti la sua visione dello sterminio nazista non solo come Shoah, ma come sterminio politico, quello che Pahor ha toccato con mano ogni giorno nei campi nazisti in cui è stato. Con gli ingegneri prigionieri politici, costretti a produrre i missili progettati dal giovane genio tecnologico di Werner von Braun (poi lavato che più bianco non si può dalla NASA), che boicottavano come potevano la produzione, magari semplicemente pisciando sulla circuiteria essenziale.

E con la storia della retorica del "Trento e Trieste". Trieste si diede agli Asburgo secoli prima, felice di darsi, perché Venezia le bloccava ogni iniziativa commerciale e marinara. Allora cominciò la crescita di Trieste.

La voglia di vivere, restando in piedi, non mettendosi distesi, nei campi di sterminio, comunque camminando facendosela addosso con la dissenteria. La furberia di riuscire a rendersi utili con un lavoro che si sapeva fare, mezzo di autodifesa e sopravvivenza. Il suo lavoro era quello di sapere parlare e scrivere benissimo in sloveno e in italiano. Anche la furberia di riuscire a sottrarsi alle torture elettriche, prendendosi solo un po' di botte. Lui non l'ha detto, ma a Trieste si usa un proverbio molto vero: "Due soldi di stupido comprano il mondo". Come il soldato Schweick di Brecht fatto da Tino Buazzelli al Piccolo di Via Rovello.

L'espropriazione della personalità fatta attraverso il cambiamento dei nomi e dei cognomi: sua moglie Radoslava divenne Francesca, la santa del giorno in cui era nata.

L'importanza dei vescovi e dei preti. Qui lo ha aiutato la presenza di Alfredo Canavero, docente di storia contemporanea alla Università di Milano. Vescovi e preti italiani e sloveni. Vescovi legati al fascio e vescovi che imparavano lo sloveno per farsi ascoltare dai fedeli sloveni.

I 12.000 prigionieri di guerra sterminati, appartenenti alla milizia anti-comunista slovena. Non erano generalmente nazisti e fascisti, ma cattolici che temevano l'ateismo. Si potevano salvare, furono abbandonati dagli anglo-americani a cui volevano consegnarsi. Figli di nessuno, anche di quel Dio in cui credevano.

Boris Pahor ha 96 anni, ogni tanto si sente, ma poco. Parla veloce, apparentemente saltando di palo in frasca. Ma è sorretto da un lucido filo conduttore, che lo rende sempre capace di sorprenderti, di farti pensare, di farti sentire la tua superficialità. Anche sul mondo di oggi. E' pienamente cosciente del fallimento del mito marxista, ma contemporaneamente sente che un nuovo equilibrio, nuove strade sono indispensabili.
Questo suo accettare le contraddizioni, esplorarle, scavarle, trovarci dentro una parziale ma feconda novità nasce dalla sua storia di vita. Profonda esperienza del mondo cattolico del primo Novecento. In particolare del personalismo comunitario di Emmanuel Mounier. Con termini più usuali, il cattolicesiomo democratico e sociale di cui Andrea Canavero è un ottimo esponente. Esperienza non rimossa, ma ampliata nel suo attuale panteismo spinoziano. Lo strordinario esserci dell'universo, che non significa un Dio personale né un Dio buono. Significa, per Boris Pahor, ogni giorno, nella sua vita concreta (compreso l'innaffiamento dell'orticello con vista sul mare), significa amare la vita con lucida passione, finché c'è. E c'è.

Grande persona. Anche ironico, malizioso, puntiglioso, ma sempre vasto e bello, nei suoi novantasei anni. Ecco la cultura come strada necessaria per tutti noi.

Trieste

P.S. Questo post è stato pubblicato anche su Stanze all'aria

lunedì 23 novembre 2009

Pittore della domenica



di gauss









Ho sempre provato fascinazione per la pittura, niente di culturalmente sofisticato, solo un ingenuo rapimento di fronte alle raffigurazioni, dalle grandi pale degli altari ai disegni di Jacovitti firmati con il mezzo salame. La pittura è arte nostra più di ogni altra, mai dimenticare che siamo stati per secoli un popolo di analfabeti colti, che le parabole del vangelo le leggevano sugli affreschi delle chiese, i miracoli dei santi sugli ex-voto esposti nelle teche e le gesta dei paladini sulle tele illustrate dei pupari. A rivelare le leggi della natura provvedeva il lunario di Barbanera mentre nei portafogli la coabitazione coatta del taccuino profumato del barbiere e del santino del patrono ad un tempo induceva e proteggeva dalle tentazioni. Ignoranza delle lettere rimediata con la comprensione delle immagini, che delle lettere sono la versione primordiale.

A un certo punto è accaduto che, oltre che avido lettore, mi sono ritrovato appassionato seppur lento e incostante scrittore. E’ accaduto perché alla Famiglia Artistica Lissonese tutte le mattine della domenica Gino Meloni, che ho già presentato in un post precedente, teneva scuola di pittura. Meloni era un artista animato da motivazioni sociali, che allora si chiamavano socialiste, considerava l’arte un fattore di elevazione culturale e morale ed era convinto che l’artista avesse un ruolo e un compito educativo cui egli stesso non voleva sottrarsi, un compito che del resto non gli spiaceva affatto, anzi, vedere che i suoi concittadini si interessavano alla sua arte era per lui la più grande gratificazione. Sentimento ricambiato. Alla scuola della Famiglia Artistica Meloni era un “profeta in patria”, circondato dall’affetto e dal rispetto di tutti. E alla scuola lui ammetteva tutti, adulti e bambini, esperti o principianti, unico requisito la curiosità e l’amore per la pittura, i presuntuosi e i superficiali li buttava fuori.</
Per dirla tutta, era una scuola per modo di dire, agli aspetti tecnici Meloni non dava importanza, nessuno l’ha mai sentito parlare di imprimitura della tela o di diluizione della tinta, di punto di fuga o di colori primari. Più che insegnare a dipingere, invogliava alla pittura. Meloni era stato uno studente irregolare, però ricordava di aver avuto un grande maestro, lo scultore Arturo Martini: “…gli altri rimanevano dentro gli schemi tradizionali, erano bravi professori. Lui no, era un’altra cosa, era un uomo vivo… Ma non era un professore, era un maestro… non sapeva insegnare, non spiegava… ma le sue parole ti scavavano dentro…”. Un giorno Meloni pronunciò quello che sarebbe diventato il manifesto della sua scuola: “…non si insegna come si dipinge un albero o una testa, ma si cerca di capire che cosa sia l’albero o la testa; poi viene il resto…”. Anche Socrate parlava così.



L'attaccamento di Meloni alla scuola fu sempre assiduo e disinteressato, la sua passione e il suo entusiasmo contagiarono più di un generazione. Non mancò un appuntamento domenicale per più di cinquant’anni, fino a quando, malato e malfermo, si adattò a stare seduto in mezzo ai suoi allievi che a turno gli portavano la loro opera per sentire la sua opinione e ricevere il suo incoraggiamento.




Tutte queste cose mi erano completamente ignote quando, essendo i miei due figli ancora bambini, un po’ per saggiare la loro inclinazione artistica, un po’ per guadagnare un paio d’ore di preziosa libertà domenicale, decisi di portarli a Lissone alla scuola di Meloni. Finì che, una volta lì, vedendomi gironzolare fra i cavalletti, qualcuno mi mise in mano i pastelli colorati…Dopo un paio di mesi i miei figli cominciarono a sbuffare “Papà, che barba, si va a pittura anche domani?”. Non ce li portai più, a dipingere con Meloni ci andai da solo, e ci vado ancora oggi che Meloni non c’è più. Sono un pittore della domenica.



Gauss



Opere riprodotte, nell'ordine:


Donna brianzola (1950)

Venezia (1954)

Brianza (1960)

Vetrine (1976)

Ritratto d'uomo (1988)

























































domenica 22 novembre 2009

Uno strumento per discutere

di alberto

Ho avuto occasione
di chiacchierare con quattro amici
soci o simpatizzanti di Novaluna,
che hanno presentato
o si riservano di presentare
proposte per i nostri incontri.

a tutti ho chiesto di farlo
attraverso questo blog,
che mi piacerebbe diventasse
la piazza del nostro paesello virtuale.

dato che le caratteristiche del blog
sono state oggetto di un ottimo post
del nostro amico Primo Casalini
e mi sembra inutile ripetere, peggiorandole,
cose già dette per bene,
non mi resta che aggiungervi il link: Provando e riprovando


venerdì 20 novembre 2009

la banda larga

di Claudio
I giornali sono pieni di articoli sulla banda larga, dopo la bocciatura da parte del governo del relativo finanziamento. In occasione dell'ultima campagna elettorale per l'elezione del sindaco di Milano avevo scritto un articolo sull'argomento per una delle liste concorrenti: l'articolo non fu pubblicato e come punizione divina per questo sgarbo quella lista perse le elezioni.
Pubblico ora l'articolo, con minime variazioni (da allora non è cambiato nulla).

MILANO DIGITALE
A rose is a rose is a rose is a rose diceva Gertrude Stein, sostenendo che obiettivo del linguaggio è portare cose e persone e parole, al di là del puro uso, ad una ”eccitante esistenza”.
E aggiungeva: la civiltà comincia con una rosa.
Noi, nel 21° secolo, potremmo dire: un impulso è un impulso è un impulso; e cosa rappresenta un impulso? (od una storia di impulsi?).
Tutto.
Il controllo della semaforizzazione, il governo dei convogli della MM, i controlli della Polizia Municipale, le misure dei livelli di inquinamento, come anche la produzione dei certificati anagrafici, la notifica delle multe, il calcolo dell’ICI, la mappa del territorio di Milano.
Ma ancora la riproduzione dei meravigliosi quadri ed affreschi di Leonardo, di Foppa, del Bergognone, la fruizione del tesoro di cultura custodito a palazzo Sormani, la registrazione degli acuti delle primedonne della Scala.

L’impulso, scomponibile in seni e coseni trigonometrici, ed in riccioluti integrali, secondo le formule di Fourier, e trasmesso analogicamente, si deforma, decade, perde buona parte del suo significato originario (addio crome e biscrome, addio delicate sfumature dei panneggi dei maestri del rinascimento, addio inflessioni che fanno riconoscere le voci amiche) e, ampliato e rigenerato diversamente a seconda dell’altezza della armonica, muta.



L’impulso digitale, rigenerato nel suo percorso sempre eguale a se stesso, non muta: un impulso è un impulso è un impulso.

L’unico nemico dell’impulso è la ristrettezza della banda, il suo miglior alleato la cristallina purezza delle fibre ottiche, veicolo ideale dalla banda teoricamente infinita.
Milano ha nel proprio sottosuolo, più di 300.000 km di fibra ottica.
Milano ha prestigiose Università dove ingegneria ed informatica sono insegnate a livello di assoluta eccellenza.
Milano dà sede a prestigiose aziende, nazionali ed internazionali, leader nei settori della informatica, dei sistemi informativi, della consulenza direzionale.
Milano ha un traffico che satura tutte le risorse viarie disponibili.
Milano ha un elevato livello di inquinamento atmosferico.
Milano ha tutte le risorse per essere un centro di turismo culturale, di ricerca scientifica, di sviluppo industriale, ma non sfrutta queste risorse.
Milano ha tradizioni altissime nel mondo dei commerci, della finanza, delle fiere, ma queste tradizioni si stanno offuscando.
Si fugge da Milano per abitare altrove, si corre a Milano per trovare lavoro qualificato.
Ed allora sfruttiamo la tecnologia (sempre come mezzo, mai come fine) per dare un contributo, parziale ma sostanziale, alla soluzione dei problemi.
E quindi smaterializziamo la carta, eliminiamo all’origine le defatiganti code agli enti pubblici, comprimiamo il tempo di attraversamento delle pratiche negli uffici comunali, usiamo notifiche elettroniche (addio a messi, fattorini, portaborse, incensieri e turibolanti).
E ancora portiamo nelle case di tutti le biblioteche, i musei, le mostre, la partecipazione ad eventi.
Ed ancora a casa di tutti le diagnosi cliniche, l’assistenza di primo intervento, la prenotazione dei servizi assistenziali.
E la cultura, la formazione permanente, la partecipazione a gruppi di interesse e di solidarietà.
Gli strumenti ci sono, c’è la cultura, ci sono anche, e soprattutto, i problemi.
Non bisogna inventare nulla.
Bisogna fare.

sabato 14 novembre 2009

L'Om selvarech

di giorgio casera


A proposito di personaggi veri (come Fra Dolcino) o leggendari (come il bandito Lasco) che hanno vissuto nelle nostre vallate alpine, sono rimasto sorpreso nel trovare, nella recente visita al Museo delle Alpi a Bard, la rappresentazione della leggenda dell’om selvarech (uomo selvatico), originata e mantenuta in uno specifico paesino delle Dolomiti sudorientali, Rivamonte Agordino (in seguito però ho saputo che anche in Valtellina esiste un personaggio analogo), confinante col paese dei miei nonni, dove ancora trascorro le vacanze in montagna.

Rivamonte è il nome amministrativo dato al Comune formato da un agglomerato di frazioni sparse sulla costa di una collina che degrada verso la Val Pettorina, dal nome del torrente che alimenta il Cordevole, affluente del Piave.
Nei secoli gli abitanti di Rivamonte hanno fatto i contadini e boscaioli, integrando quando possibile le magre risorse raccolte col lavoro di minatore in una vicina miniera di pirite attiva fino agli anni ’30 del ‘900 e i seggiolai (di sedie impagliate). Dal mondo agropastorale è nata la millenaria leggenda dell’uomo selvatico, uomo che vive nei boschi vestito di rami e di foglie e che conosce i segreti della lavorazione del latte, segreti che ha rivelato all’uomo (questo motivo è ricorrente in altre leggende di derivazione celtica).
Quando mia nonna lo citava era per fare paura a noi bambini, ma per quanto detto sopra nel paese viene considerato un “eroe positivo” e fatto diventare, dalla popolazione di Rivamonte, protagonista di un rito primaverile propiziatorio che si svolge nelle vie e nelle piazze del paese.

Secondo gli esperti di miti e leggende europee “l’albero è un simbolo cosmico, considerato un essere animato, in grado di rendere fecondi i campi, di far cadere la pioggia, di far splendere il sole. L’om selvarech, che ne è rappresentazione, incarna lo spirito della vegetazione nella delicata fase equinoziale. Rivestito di foglie e rami, si crede abbia un influsso fertilizzante sulla natura che comincia a risvegliarsi”.

Nel Centro Visitatori del Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi, ad Agordo, è stata allestita una sezione sulla figura leggendaria dell’Om selvarech.

giovedì 12 novembre 2009

la Televisiùn

di alberto

con frequenza intollerabile
ci propina ogni sera,
in ogni telegiornale,
un osceno rosario
di miserabili misirizzi.
ci frantumano i testicoli
- o le ovaie -
recitando i loro sermoncini
come le maschere
di una brutta commedia dell'arte.

per non parlare di cronaca nera,
di plastici e impronte.



a volte invece,
imprevedibilmente,

ci porta in casa
persone vere.




mi ha colpito in questi giorni
il bel viso dolente,
la pacatezza, la dignità
di Ilaria Cucchi,
sorella di quel povero Stefano,
massacrato di botte, e accoppato,
tra patrie galere,
patrii tribunali,
e paterni insulti
di ignobili sottosegretari.





mercoledì 11 novembre 2009

IN VALSESIA SULLE ORME DI FRA DOLCINO

di dario

Il mio caro amico Giorgio Crippa ha parlato su questo blog della "sua" Valsassina e io vi voglio parlare della "mia" Valsesia .
Io in Valsesia ci sono nato, nella casa di mia nonna paterna, ma colà non ho mai avuto la mia residenza anche se almeno cinque generazioni di Chiarino hanno avuto la loro culla in una frazione del Comune di Quarona che si chiama Valmaggiore, luogo in cui soggiorno diversi mesi all’anno..


Valmaggiore 


In Valsesia il turismo non è particolarmente fiorente e ciò non mi dispiace, anzi… è per questo che alcuni suoi angoli sono sfuggiti al deturpamento che la società del cemento ha realizzato in gran parte del nostro paese.
Ma vi è anche nella storia della Valsesia un personaggio che ha generato una copiosa letteratura specie all’estero e che ha indotto Umberto Eco a parlarne nel suo romanzo "Nel nome della rosa" e Dante Alighieri a riservargli qualche verso del suo Inferno:



"Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi,
tu che forse vedrai il sole in breve,
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,
si di vivanda, che stretta di neve,
non rechi la vittoria al noarese,
ch'altrimenti acquistar non saria leve."
DANTE ALIGHIERI - La divina commedia, Inferno XXVIII, 55-60



Il personaggio è l’eretico Fra Dolcino e la sua figura parzialmente avvolta dalla leggenda mi ha incuriosito al punto che mi sono letto diversi libri che lo riguardano1),2) e, quando avevo qualche decina d’anni meno, ho ripercorso materialmente le tappe della sua permanenza in Valsesia.
Una delle più significative di queste tappe è senz’altro il villaggio di Rassa. 3)
A Rassa si arriva con un’agevole e tortuosa strada asfaltata che inizia a salire dal fondo valle tra i paesi di Piode e di Campertogno e si accompagna al torrente Sorba tra pareti scoscese di roccia.
La sua valle è detta "Valle dei tremendi", forse per la tempra e il carattere dei suoi abitanti o forse per le vicende che hanno visto protagonisti i dolciniani.
Nel 1304, Fra Dolcino con i suoi seguaci percorse quella zona della valle alla ricerca di un posto dove fermarsi e si arroccò a Pian dei Gazzari sulla sommità della Parete Calva fra Rassa e Campertogno dove la superstizione popolare vuole che il profilo del volto di Fra Dolcino sia stato scolpito dalla natura nella roccia.



 Rassa


Chiunque giunga a Pian dei Gazzar, superando le asprezze dei sentieri che vi conducono, può rendersi conto che quello spazio può ospitare solo poche decine di uomini. E' quindi ragionevole pensare che solo il quartier generale o un semplice corpo di guardia presidiasse quel luogo e che la maggioranza (ben oltre mille) dei seguaci di Dolcino, che contava anche donne e fanciulli, dimorasse nei dintorni più a valle.
La permanenza dei Dolciniani a Rassa fu interrotta dalla mancanza di viveri derivante dall’assedio dei crociati del vescovo di Vercelli .
Da Rassa, dopo aver lasciato in Valsesia i più deboli e gli ammalati, risalì con un'epica marcia la boscosa Val Sorba innevata e attraverso il passo di Furnei scese nel Biellese e si trincerò su quello che oggi è chiamato monte Rubello sopra Trivero. Era il 7 di marzo dell'anno 1306.
Tuttavia anche nel Biellese, la stagione inclemente e la misera economia della zona resero ancora difficilissimo il vettovagliamento di tutta quella gente e costrinsero i seguaci di fra Dolcino ad operare vere e proprie razzie per non morire di fame. Ciò finì per alienare le simpatie anche di quella popolazione e per favorire la crociata bandita dal vescovo di Vercelli.
Il 13 marzo 1307, dopo una serie innumerevoli di scontri violenti e cruenti durati più di un anno, gli Apostolici furono sgominati e fra Dolcino, la sua compagna Margherita e il suo luogotenente Longino Cattaneo da Bergamo furono catturati e imprigionati in attesa del processo e dell'inevitabile supplizio.
Le memorie di un anonimo sincrono e le cronache dell'inquisitore Bernard Gui, un frate predicatore di origine tolosana, sono le fonti da cui si può conoscere, oltre alla dottrina e alla vicenda di Dolcino, i particolari raccapriccianti della sua fine, avvenuta il 1 giugno 1307 sotto le tenaglie infuocate di un boia che lo fece a brandelli su un carro che percorreva le vie di Vercelli e ne arse i miseri resti su un rogo eretto sulle rive del torrente Cervo.
Margherita e Longino arsero anch'essi sul rogo. Nessuno di essi abiurò la propria fede.
Riprendendo a parlare di Rassa e della Valsesia, è ancora possibile ritrovare intatti e immutati, per chi ripercorre i sentieri e risale i monti che videro l'odissea dolciniana, gli scenari naturali di quel dramma che hanno contribuito ad alimentare attraverso i secoli la leggenda e l'immaginazione popolare.
Chi vi parla, avendo ripercorso gran parte di quei sentieri e di quelle valli, ha potuto rendersi conto delle enormi difficoltà che quella gente dovette vincere per raggiungere e valicare quel passo nella loro marcia che, invece della salvezza, approdò al suplizio e alla morte..
 
Links e bibliografia

1) - ORIOLI RANIERO, Fra Dolcino - Nascita, vita e morte di un'eresia medioevale, Europía, Novara 1993.
2) - SOGNO EDGARDO, La croce e il rogo - Storia di fra Dolcino e Margherita, Mursia, Milano 1995.
3) - http://www.rassavalsesia.com/site/


martedì 10 novembre 2009

Avventure in biblioteca (2)

di primo


Alla Biblioteca di Lissone c'è un'ottima sala multimediale. Me ne sono dovuto servire perché il PC mi ha lasciato a piedi per venti giorni, in cui mi sono aggirato per Monza, fra l'ospitalità di amici e Internet Point scomodi e cari.
Poi ho cominciato ad andare a Lissone, perché di certe cose ti accorgi solo quando ti servono. Conclusione: ho potuto lavorare agevolmente su PC quasi nuovi di pacca, il costo orario era meno della metà di quello degli Internet Point e potevo andarmene quando mi pareva, perché il sistema memorizza il tempo pagato ma non ancora utilizzato. Il giorno dopo avevo quel credito automaticamente a mia disposizione.

Però non sono tutte rose e fiori. Un giorno, parlando con una impiegata, le dissi che sarebbe stato interessante far sapere che Abbracci e pop corn, il mio blog sul cinema, si regge essenzialmente sui prestiti gratuiti dei DVD della Biblioteca di Lissone. Mi ha guardato come se le avessi chiesto una cosa scorretta e mi ha detto: "Guardi che siamo un servizio pubblico!" Ora, col blog non ci guadagno una lira, non c'è neppure la pubblicità. E' un posto ad alte visite e a detta di tutti ha aspetti culturalmente interessanti (pittura, musica, letteratura etc), i visitatori non vengono certo per compiacenza o ricerche strane. Non ho insistito. Mi sono reso conto che non era colpa sua, ma di una diffusa mentalità che privilegia la libretta regolamentare rispetto al servizio inteso proprio come servizio.

Un giorno, trovandomi a Monza in Piazza Trento e Trieste, decisi di passare dalla Biblioteca Civica (di fianco allo Zucchi) in cui non ero mai andato per i DVD (andare a Lissone mi è più comodo per i minori problemi di parcheggio). Ho scoperto due cose che non mi sarei mai aspettato:
1. Alla Biblioteca Civica di Monza la grande prevalenza ce l'hanno le videocassette VHS, che oggi non interessano più quasi nessuno (a meno che non si tratti di film non ancora disponibili su DVD). E questo ci può stare, anche se sarebbe bene che si aggiornassero.
2. A prescindere dal supporto (VHS o DVD), i film non li danno a prestito, ma assegnano una postazione a chi vuol vedere quel film, con tutte le scomodità conseguenti. Anche in questo caso è inutile stare a discutere. Se dopo Lissone e la Civica di Monza, andassi nelle Biblioteche di Giussano o di Desio, scoprirei probabilmente regolamentazioni ancora diverse.


P.S. Le immagini. Richiami iconografici al Pisanello nel film "Giulietta e Romeo" (1954) di Renato Castellani.

sabato 7 novembre 2009

Quiz a premi: chi sa cos'è? perché si chiama così?

di alberto


siete richiesti
di analizzare
questo oggetto,








il prodotto,
progettato chiaramente
in epoca déco,















ha un nome.
come si chiama?
perché?

venerdì 6 novembre 2009

LA VENDETTA DEL BANDITO

di giorgio crippa





Amo la Valsassina che considero un po' come una mia seconda casa.

La frequento dal 1943 quando i miei genitori sfollarono per sfuggire ai bombardamenti.

Dopo la guerra, salvo qualche sporadica parentesi, per molti anni ho passato le vacanze a Margno.


Ho conosciuto l'Ambrogio, persona molto interessante, che aveva due grandi passioni, la caccia e l'allevamento delle api. Gestiva un negozio di articoli di abbigliamento sportivo e il suo locale era un punto d'incontro obbligato tutte le volte che salivo in valle.

Sebbene si allontanasse raramente dal paese, Ambrogio coltivava molti interessi; con lui la conversazione spaziava dalla politica alla storia, ai fatti del mondo.

Da lui ho appreso per la prima volta la leggenda del bandito Lasco, delle sue scorribande in Valsassina, avventure ambientate attorno al 1600.

In anni recenti il comune di Parlasco, che conta poco più di 100 residenti, ha dato libero spazio ad artisti che hanno affrescato le mura di diverse case con episodi tratti dalla vita del bandito raccontata da Antonio Balbiani nel suo storico romanzo.

La fine di Lasco, ferito ed inseguito dai gendarmi, pare sia avvenuta nel greto di un torrente che precipita dal Pian delle Betulle lambendo il paese di Margno.

Per tutti quel torrente si chiama "il Bandito", è quasi sempre in secca, ma quando scoppiano violenti temporali si rianima.

Uno dei desideri di Ambrogio, che ormai si è ritirato dall'attività e si dedica solo alle api, è quello di campare sino a quando potrà assistere alla sua vendetta.

Infatti, in epoca recente, per far posto ad un ennesimo condominio per le vacanze, è stato deviato il corso del torrente che ora non procede più in modo rettilineo ma compie una deviazione girando attorno al fabbricato.

Per Ambrogio una cosa è certa, un giorno il Bandito spazzerà via il fabbricato abusivo, augurandosi che non ci siano vittime, come avvenne nel 2002, quando a seguito di piogge torrenziali per quindici giorni, si è staccata una grossa frana sopra l'abito di Bindo i cui abitanti si sono salvati grazie alla provvidenziale ordinanza di sgombero che il Sindaco aveva notificato poche ore prima del disastro.

ancora sulla serata con i musulmani di 2° generazione

di edoardo

La questione dell'integrazione dei giovani musulmani nati o comunque cresciuti in Italia mi sembra possa meritare ancora qualche considerazione, data la sua problematicità, comunque la si voglia vedere:

ecco cosa ha scritto a Novaluna una persona del pubblico di quella sera:


"Bello il quadretto presentato dal prof. Branca! Due bei giovani, bravi studiosi, combattivi e ottimisti, tanto ben accettati nel nostro paese da avere a disposizione ben 650 luoghi di preghiera più quelli abusivi.

Mi sono laureata nel 1966 e già avevo un collega “negretto” amico di tutti e per niente malvisto , temuto, escluso.

Ma chiedo ai due giovani: che cosa fanno, che cosa dicono ai loro colleghi migranti che vivono in Italia, che cosa scrivono sulla loro stampa per aiutarli a integrarsi ,a non massacrare i loro figli, a non tramare contro il paese che li ospita, a non allontanare i loro giovani per non farli sposare con un italiano ?

Noi l’ abbiamo capito che li dobbiamo aiutare ma loro, i giovani facciano un passo in più: scrivano sui loro giornali, parlino ai loro conterranei,non è il velo che ci spaventa, ma il loro non rispetto della persona che al dilà del Corano imparato a memoria e mal interpretato non ha alcun peso per un essere umano di un certo grado e sesso .

Al prof. Branca dico che non serve puntare la sveglia per pregare solo perché imposto; le campane alle 7 del mattino mi bastano per credere in Dio e darmi la forza di accettare tutti benché diversi.

Maria Montrasio Lorenzini"


ed ecco cosa ho creduto opportuno rispondere:


"gentile signora,

mi permetto di segnalarle il sito
www.blog.vita.it/yalla nonchè il giornale telematico www.yallaitalia.it/ dove i giovani musulmani di seconda generazione parlano e scrivono ai loro coetanei e alle persone di buona volontà proprio quanto lei vorrebbe che facessero, e spesso in contrasto con la loro cultura familiare.

fra l'altro c'è un toccante articolo di Lubna (la giovane che era presente l'altra sera) sulla ragazza ammazzata dal padre per "questione d'onore" dove viene espresso il grande dolore di questi giovani per una così grave ingiustizia.

Le ricordi che fino a una quarantina di anni fa il delitto d'onore godeva di forti attenuanti nella (nostra) civile legislazione, cosi come le sggerisco di leggere il libro di Gian Antonio Stella "l'orda, quando gli albanesi eravamo noi", libro che riporta quanto hanno sofferto i 30 MILIONI di italiani che sono emigrati tra l'800 e il 900, ma anche come ALCUNI di loro, abbiano avuto un bel ruolo nella malavita dei paesi dove erano andati.

E comunque le difficoltà che hanno avuto per passare da culture contadine e arretrate a modi di vivere e convivere più civili! (le mando una esemplificativa vignetta tratta da quel libro, nonchè la lettera di Kaled Fouad Allam (il docente a Trieste e ad Urbino, non il giornalista Magdi Allam), a sua figlia, nata in Italia.

Quello che più spesso si sente dire, parlando con maestri e professori, è la grande voglia di bambini e ragazzi immigrati, di essere quanto più possibile simili ai loro compagni, nei giochi, nelle abitudini, nelle aspirazioni: anzi, talvolta i più consapevoli della fortuna che hanno di poter studiare, cosa spesso impossibile nei paesi di origine, di essere più bravi.

Ma talora imitano anche certi nostri non edificanti modelli: diventare calciatori e veline...senza dimenticare che, come si è detto quella sera, ci sono anche genitori che mettono sempre in guardia i loro figli da equivoche frequentazioni, anche politico-religiose.

Mi permetto ancora due domande: che cosa vuol dire che i Musulmani pregano in tanti luoghi "abusivi"? E' un disagio per loro o per noi a cui da fastidio vedere che esistono credenti di altre religioni? (ma come avra sentito non tutti sono osservanti).

Ed ancora, ha proprio bisogno di scomodare Dio per "avere la forza di accettare tutti benchè diversi"? Non le basta il fatto di essere una persona colta e civile? Non vorrei annoiarla con altre considerazioni, ma quanti orrori e disastri ci sono stati nella storia dell'umanità per quel "benchè diversi"!

Quante volte la avversione e la paura del diverso diventano capro espiatorio di tutti i guai e i disastri che avvengono!

mi (ci) farebbe piacere ricevere una sua risposta

Edoardo Marino, nato prima della 2° guerra e laureatosi anch'esso nel 1966"


Ormai questa lettera è stata mandata, ma mi piacerebbe che gli amici del Blog esprimessero ulteriori argomenti per rafforzare (o modificare) quelli miei, per dare a chi vorrà la possibilità di controbattere, nella maniera più efficace (e più civile) possibile, affermazioni come quelle della signora Maria.

Edomonza

Avventure in biblioteca (1)

di primo

"L'inferno" (1911) di Giuseppe Berardi

Per Abbracci e pop corn, il blog sul cinema come esperienze di spettatori (non come recensioni di critici), vado spesso alla Biblioteca di Lissone, perché dà in prestito cinque DVD alla settimana.
Per me è un servizio utilissimo: nella Biblioteca ci sono centinaia di DVD non di rado di difficile reperimento. Per questo ho potuto di recente inserire nel blog dei film come "Wittgenstein" di Derek Jarman, "Madame de.." di Max Ophüls, "Cronache di poveri amanti" di Carlo Lizzani, "Teresa Venerdì" di Vittorio De Sica, addirittura un film del 1911 che dura quindici minuti dedicato all'Inferno di Dante!
Non solo. Anche se non succede come coi libri, di cui si può chiedere ed ottenere l'acquisto da parte della Biblioteca, la gentilezza delle persone ha fatto sì che comparissero d'incanto film di Nanni Moretti e di Eric Rohmer che prima non c'erano.
Però (esiste sempre un però) ci sono alcune cose di fronte a cui rimango stranito. La colpa non è della Biblioteca né delle singole persone, ma di certe abitudini dei servizi pubblici che hanno l'unica giustificazione di essere abituali.

"Wittgenstein" di Derek Jarman
Tre esempi.
Mi interessava sapere quali fossero i film più richiesti in prestito e quali meno: una semplice lista informatica ordinata per numero di prestiti. "No, non c'è. No non si può". Ma perché mai? I DVD sono sempre più richiesti, il numero di prestiti è in crescita, mi sembra logico che questi dati ci siano e siano consultabili dai visitatori. Sia per i DVD che per i libri.
Ho ascoltato le lagnanze di una impiegata della Biblioteca appassionata di cinema. Ha ordinato dei DVD da mesi e mesi e non sono ancora arrivati. Magari il produttore dei DVD all'edicola che sollecita effettua la consegna in settimana, alla biblioteca pubblica no.
Le biblioteche facenti parte di BRIANZA BIBLIOTECHE sono ventitrè, e per i libri è possibile rivolgersi alla Biblioteca più vicina per ottenere il prestito di un libro che è in un'altra biblioteca. Avvertono anche a casa, quando il libro arriva. Per i DVD no, non si può fare. Ma come? Oltretutto l'ingombro di un DVD è generalmente molto più piccolo di quello di un libro.
(ci sarà almeno una seconda puntata...)

"Madame de..." di Max Ophüls

"Teresa Venerdì" di Vittorio De Sica

domenica 1 novembre 2009

I segni dell'ambiente che cambia

di giorgio crippa



Questa immagine risale a quattro anni fa; siamo a S. Giorgio di Biassono, a ridosso del Parco.

Oggi questa suggestiva visione ci è stata scippata; in questo caso il clima non è responsabile.

No, forse sbaglio, è colpa del clima, si di quello politico che ha avvelenato tutto.

Pensate, quest'area era super protetta; era sotto la tutela del Parco della Valle del Lambro, era salvaguardata dai vincoli di rispetto del Parco di Monza e da quelli idro geologici del fiume Lambro cha la lambisce.

Eppure se passate oggi l'ambiente è ben diverso.
Debbo constatare come diversa sia anche la sensibilità degli ambientalisti, sempre pronti a difendere il singolo albero all'interno del Parco, salvo poi disinteressarsi di quello che succede solo qualche metro fuori le mura.
Dico questo perchè a suo tempo avevo segnalato il fatto a tutti i miei conoscenti che so essere sensibili e attivi nel campo della tutela del paesaggio.
La perla finale è stata una mia telefonata all'allora presidente del Parco della Valle del Lambro Arch. Ascari. Quando gli ho segnalato il fatto, dopo un attimo di esitazione mi ha risposto "..si ora mi ricordo, tempo fa il Sindaco (si tratta del Borgomastro di Biassono) mi ha chiesto una deroga che abbiamo accordato.
Il tutto è avvenuto in cambio di una tangenzialina a S. Giorgio che l'impresa si è accollata.
Come vedete , tutto è in regola, viva la Lega!