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mercoledì 28 aprile 2010

Elio De capitani - Un atto totale (2)

Gauss

L’improvvisato ruolo di recensore delle serate di Novaluna mi sta riservando inaspettate gratificazioni. Fra queste, oltre all’apprezzamento di Ottavio e di Alberto, un messaggio di Elio de Capitani che, insieme a generose espressioni di gradimento, propone due importanti precisazioni, in tal modo omaggiandoci di altre sue illuminanti considerazioni.
La prima riguarda l’Amleto da me impropriamente attribuito a Peter Brook, mentre Elio si riferiva a quello messo in scena e ripreso in una celebre trasposizione filmica da Tony Richardson con Colin Williamson nella parte di Amleto. In proposito Elio chiarisce le mie troppo scheletriche notazioni con una “interpretazione autentica” (estraggo i passaggi che a me sembrano più eloquenti e significativi).

«Ritengo che Richardson abbia avuto una felice intuizione, nel suo Amleto. Siamo di fronte alla rappresentazione del potere e dell’uomo in rivolta Amleto. Ci si sarebbe aspettati, in quegli anni, un potere grigio e cupo e una rivolta tutta colori: così noi ci ritraevamo allora. La rivolta del colore (L’immaginazione al potere!) contro il grigio dei "matusalemme" arroccati al potere.
E invece Richardson ci frega: il potere è colorato, la rivolta è vestita di nero, sobria, puritana, moralista, quasi sessuofoba nell’ossessione di Amleto per le nuove nozze di sua madre con l’usurpatore. Vi ho visto una anticipazione del nuovo potere di questi anni, così diverso da quello grigio – le grisaglie e la camicia bianca degli uomini di potere di allora, abito piccolo-borghese per eccellenza - a cui eravamo abituati. Un potere colorato, smaccato, truccato, coi tacchi per tutti, le donne supertirate, il lusso ostentato e la trasgressione solo velata dalla ipocrisia ammiccante – l’ipocrisia è il solo omaggio che il vizio rende alla virtù: per il resto se ne frega – un potere edonista che non si preoccupa poi di lanciarsi a spada tratta in battaglie moraliste sui “temi etici” ma pratica un gusto sfrenato per la vita che non ammette limiti, almeno al privilegio.
Mi pare un merito grandissimo di Richardson l’aver intuito - nel 1968 ! - un "potere nuovo" in questa nuova veste sgargiante e spettacolare. E pure aver intuito - nel 1968 ! - che i ribelli veri di oggi avrebbero dovuto opporsi a quel potere rischiando di vestire i panni dei moralisti, dei bacchettoni, dei pessimisti, sostanzialmente dei noiosi e degli sfigati, dei falliti, dei poveracci tristi, dei frustrati…
(………)
Il sessantotto fu un’occasione straordinaria per mettere al passo l’estetica della vita con la velocità delle trasformazioni sociali. Il potere si oppose all’estetica della rivolta e alla sua rumorosità, ma poi qualcuno intuì le potenzialità di un nuovo mercato, di un nuovo business, di un nuovo potere e si buttò nella corrente. Dissociò l’estetica dai valori di cui si voleva far portatrice e ne fece il turbo compressore della sua nuova creazione di privilegio
».

La seconda precisazione riguarda l’effetto tabù della Shoah sul modo di proporre e interpretare il Mercante di Venezia nel dopoguerra. Questa la nota di Elio De Capitani:

«…In tutte le messinscene del Mercante di Venezia del dopoguerra ha prevalso la scelta di farne una tragedia, tutta tinta dei colori dello scontro tra Shylock e Antonio.


Il Mercante di venezia, regia di Elio De Capitani

Ma, dopo la Shoah, molti registi si sentivano intimoriti dal tema “antigiudaico”, pur abilmente trattato da Shakespeare e ritenevano che non si potesse ridere e far commedia, aderendo a quel finale che anticipa la leggerezza mai superficiale del Mozart di “Così fan tutte” (a ruoli invertiti tra uomini e donne), quando c’è di mezzo un ebreo e tutta la veemenza antigiudaica dei veneziani, che diventa repulsione in Antonio e in Bassanio e violenza verbale estrema e senza freni in Graziano. Qui ho detto: “é come se fosse scattato un tabù”.
Invece il Mercante é anche e soprattutto una commedia, quasi un musical ante-litteram, dove Shylock è un incidente tragico.

Trascrivo le note di regia che scrissi allora allo stesso tavolo da cui sto scrivendo ora».

Le note di regia di Elio sono un testo fluviale, che un commento a un post faticherebbe a contenere. Ma chi è interessato a conoscere compiutamente il suo pensiero su questa opera shakespeariana lo può trovare sul sito di Novaluna qui.
Grazie Elio, sia dell’indimenticabile serata che di questo prezioso supplemento.

Gauss




martedì 27 aprile 2010

25 Aprile

di alberto

Domenica scorsa
era il 25 aprile.
le cerimonie ufficiali
seguono schemi immutabili.
prevedono sostanzialmente
due momenti:
una visita al cimitero
con due-tre soste,
più tardi un corteo, l'Alzabandiera,
la Messa e i discorsi in piazza.
L'altro giorno è successa una cosa nuova:
finite in cimitero le visite di rito,
con la banda e le Autorevoli Autorità,
un gruppo di persone, prevalentemente ANPI,
si son fermati al campo dei deportati;
hanno dato vita ad una cerimonia
molto commovente nella sua semplicità:
la lettura dei nomi dei deportati
con data e luogo dell'arresto,
qualche parola di ricordo,
la lettura di poche righe con ricordi personali
o di una pagina di un libro di memorie,
due tre pannelli con le foto, qualche canto.

Ho dovuto scappare
prima della fine perché,
miracolato del 25 aprile
come mi considero,
non rinuncio alla parte
di cerimonie in piazza.
E così mi è riuscito
di ascoltare due ragazzi,
credo allievi dello Zucchi,
che mi hanno commosso:
due discorsi seri, asciutti,
senza un filo di retorica.
la foto è di Franco Isman

domenica 25 aprile 2010

Un tranquillo garibaldino delle Argonne

di Dario

Si chiamava Antonio Buffoni e lo conobbi alla fine degli anni quaranta. Era un distinto signore sulla sessantina, con il colletto della camicia bianco e inamidato e una cravatta nera alla Lavallière. Portava sempre un cappello a lobbia grigio, presumibilmente Borsalino, baffoni e capelli neri . Il suo conversare era semplice e cordiale, con un po' di dialetto milanese spruzzato qua e là come il pepe su un buon minestrone tradizionale.
Aveva un negozio di biancheria in Via Fabio Filzi a Milano ed era un "repubblicano storico" come mio padre, ma quello che era più sorprendente per quel tranquillo borghese era l'essere stato un Garibaldino delle Argonne, cioè uno di quei volontari che nell'ottobre 1914 andarono in Francia a combattere contro i tedeschi prima ancora della dichiarazione di guerra dell'Italia.



La sua esperienza guerresca fu brevissima perché fu vittima di uno dei primissimi colpi di fucile non appena il suo reparto giunse a tiro dei tedeschi. Tornò a casa e fu decorato alla fine del conflitto personalmente da un generale francese. Quando andai al suo funerale, il feretro fu salutato dalla bandiera di una associazione di reduci garibaldini e dalla bandiera rossa del partito repubblicano, la vista di questa fece esclamare a un passante "Oh signur, eren giàmoo in quater gatt e adèss in restaa in tri".


Poiché tra qualche mese ricorre il 150° anniversario dell'unità d'Italia, la memoria di quel tranquillo borghese mi ha suggerito anche di ricordare su queste pagine i garibaldini delle Argonne che rappresentarono un prologo poco celebrato della prima guerra mondiale.

La legione garibaldina, inquadrata nella Legione Straniera francese, ma conservando sotto la giubba la tradizionale camicia rossa, al comando di Peppino Garibaldi, figlio di Ricciotti, ebbe il battesimo del fuoco il 26 dicembre 1914 a Belle Etoile. Della Legione facevano parte anche cinque fratelli di Peppino: Ricciotto jr., Sante, Ezio, Bruno e Costante.


I fratelli Garibaldi


Bruno e Costante caddero entrambi sul campo, Bruno al battesimo del fuoco, Costante nel corso della seconda battaglia nella foresta delle Argonne.


La morte di Bruno Garibaldi


Le perdite della Legione furono molto pesanti con 500 tra caduti e feriti dei 2500 garibaldini arruolati. Quando anche l'Italia entrò in guerra, la Legione fu sciolta e i suoi componenti continuarono a combattere nell'esercito italiano.


sabato 24 aprile 2010

Elio De Capitani - Un atto totale

Gauss

Ha esordito con un “sono stanco, sono stanco morto” Elio De Capitani, reduce da un trionfale quanto faticoso tour di “Angels in America”. Ma un uomo di teatro come lui della stanchezza si dimentica se sente di aver di fronte a sé un pubblico che lo sa ascoltare. E il pubblico di Novaluna giovedì sera al Binario 7 lo ha ascoltato col fiato sospeso dalle nove e un quarto alle undici e mezzo, senza un momento di pausa o di distrazione, esso stesso protagonista di una “con-ferenza” nel senso letterale della parola, alla voce dell'oratore la platea corrispondeva con un coro silenzioso di attenzione e partecipazione. Alla fine, un’ovazione unanime, convinta, riconoscente, liberatoria.

Elio De Capitani in Angels in America di Tony Kushner

Di che cosa ci ha parlato? Del teatro, cioè di tutto, della vita, di noi, della nostra civiltà, della storia del mondo. E dell’attore, che recitando compie un atto totale di interpretazione della condizione umana.
La sua narrazione va alle radici della nostra cultura, alla Grecia del V secolo a.c. dove nacque quella forma di comunicazione collettiva nota come tragedia. Nella rievocazione teatrale del mito il popolo ateniese definisce le regole del rapporto sociale e con la partecipazione rituale all’evento teatrale modella la polis. E' nell'elaborazione tragica del mito che la democrazia ateniese trova la sua Costituzione.
Ricorda De Capitani che la sua folgorante giovanile passione per il teatro si è esercitata proprio sulla tragedia e in particolare sull’Orestea di Eschilo. Oreste impersona la lacerante condizione dell’eroe tragico, condannato all’ineludibile scelta fra due mali e perciò destinato all’azione delittuosa, la cui colpa non può espiare se non commettendo altri orrendi delitti. Il giudizio degli uomini è impotente a sciogliere il nodo tragico, a sentenziare sull’uccisione della madre imposta dal dovere di vendicare l’assassinio del padre.

Il teatro greco di Siracusa

La giustificazione di Oreste può venire solo dagli dei che, assolvendolo, sanciscono un principio giuridico e religioso insieme, la supremazia del vincolo di sangue col padre. Da qui il patriarcato, il diritto ereditario, la trasmissione patrilineare, la subordinazione della donna ecc., su cui si è formata e retta la civiltà antica fino alle rivoluzionarie emancipazioni del nostro tempo .
La tragedia è opera d’arte totale, in cui si fondono testo, canto, danza, poesia, azione. Non poteva essere che l’umanesimo rinascimentale, osserva De Capitani, nel suo sforzo di recuperare la purezza e la grandezza del mondo antico, a ricrearla in chiave moderna con il melodramma. Anche l’opera, come la tragedia, integra in sé tutte le forme d’arte della modernità, la poesia, la musica, il canto, il ballo, ma anche l’architettura, la pittura, la scultura. E dopo il suo declino in Europa, l’opera rinasce in USA sotto forma di musical, West Side Story è la rivisitazione americana del dramma di Romeo e Giulietta innestato sulla tragedia greca, felicità, dolore, odio, gioventù, amore, morte, quello che Shakespeare chiama the two hours' traffic of our stage.

L'elisabettiano Globe Theatre di Londra

Con convincente acutezza d'analisi rivivono nel racconto di De Capitani le figure di Amleto e di Shylock, e il diverso significato che hanno assunto in epoche diverse. L'Amleto di Peter Brook che asseconda e si appropria dell'edonismo fricchettone e sessantottardo da swinging London per imporgli sopra il proprio potere, come in realtà è storicamente avvenuto, perché uno può sorridere, sorridere, ed essere una canaglia ... E dopo la shoah è diventato un tabù l'intreccio di reciproco astio e disprezzo fra l'ebreo Shylock del Mercante di Venezia e il mondo cristiano che lo circonda, con quel terribile finale del suo celebre monologo - ho imparato da voi la lezione, metterò in pratica la malvagità che ci insegnate.

Nathalie Wood nella versione cinematografica di West Side Story

Recitare ad alto livello, ammonisce De Capitani in un superbo e appassionato elogio della figura e del mestiere dell’attore, è difficile e oneroso, impone di vivere ad alto livello. Il teatro è il regno delle anime dei morti che sulla scena riacquistano vita e voce passando attraverso il corpo, membra e mente, dell’attore. Recitare è anche una tecnica, ma non è solo tecnica, è un’arte olistica che coinvolge per intero la personalità dell’interprete e interpretare un testo non è un arbitrio, è una inevitabile necessità.


Gauss



domenica 18 aprile 2010

La Società Umanitaria e Riccardo Bauer

di Dario

Avevo quasi vent'anni quando un amico volle farmi conoscere Riccardo Bauer che a quel tempo era presidente della Società Umanitaria. Fu un incontro per me memorabile e, negli anni che seguirono, non trascurai nessuna occasione per continuare a rendergli visita. Pochissimi uomini che ho conosciuto personalmente durante la mia ormai lunga esistenza hanno inciso così profondamente sulla mia formazione politico-culturale. Nel clima di qualunquismo e di controriforma di oggi, non sono molti quelli che lo ricordano e mi stupirei se fosse il contrario.

Con Bauer ebbi modo di conoscere anche l'Umanitaria con la sua storia ultracentenaria, le sue strutture e le sue opere che hanno illustrato anche la nostra città di Monza. Ritengo opportuno accennarne anche in questa sede, seppure in modo necessariamente succinto.


La Società Umanitaria

La Società Umanitaria è un istituzione filantropica fondata a Milano nel 1893 mediante un lascito dall'imprenditore Prospero Moisè Loria.
Il principio fondamentale nella storia dell'Umanitaria è il binomio "Educazione è democrazia" e nell'assunto che il confronto di opinioni in un libero dibattito possa seriamente contribuire ad una libera circolazione delle idee che è essenza di ogni democrazia, nonché alla formazione della coscienza critica dell'individuo, considerato sempre come cittadino libero e responsabile.
Nella finalità di questa istituzione "l'azione principale era rivolta all'idea di cittadino (uomo, donna, giovane e anziano), che coniughi aspetti culturali ad istanze sociali e ad interventi nel campo dell'educazione e della formazione professionale, in modo che non ci fosse distinzione tra il fare e il sapere, ma in modo che entrambe le attività fossero utilizzate per contribuire a formare un individuo e renderlo cosciente dei propri diritti e doveri verso la società e la comunità di appartenenza".
Si trattava dunque di una missione squisitamente laica "una vera trasformazione dell'elemosina in una forma di assistenza sociale che non avvilisce, perché il beneficiario ha modo di meritarsela dignitosamente con la propria attività" come ebbe a scrivere nel 1908 il quotidiano il "Il tempo".
Tra le opere nella storia dell'Umanitaria vi è la Scuola per Arti e Mestieri situata ancor oggi nella storica sede di Via Daverio 7 dietro il palazzo di giustizia di Milano.




Oltre a ciò la Società Umanitaria operò una serie di iniziative ed interventi davvero notevoli, dalla creazione nelle principali città italiane di Uffici del lavoro, alla scuola del libro, dai quartieri residenziali popolari alla Casa degli emigranti, dalle scuole professionali di tirocinio operaio alle case dei bambini della Montessori, dai corsi serali di qualificazione e perfezionamento alla ISIA e all'Università di arti decorative alla Villa Reale di Monza e inoltre all'Istituto di credito per le cooperative popolari.




Il patrimonio edilizio e sociale dell'Umanitaria andò distrutto pressoché completamente nel corso dell'ultima guerra mondiale e le sue già notevoli risorse finanziarie furono dilapidate dalla gestione commissariale nel periodo fascista, ma seppe risorgere in grado di proseguire la sua encomiabile funzione educativa e sociale anche per merito di Riccardo Bauer, che ne fu il primo presidente del dopoguerra.


Riccardo Bauer


Chi era Riccardo Bauer? Naque a Milano nel 1896 e ivi morì nel 1982. Si era laureto in scienze economiche e aveva partecipato alla prima guerra 1915-18 nel corso della quale fu più volte ferito e decorato. Collaborò a "Rivoluzione liberale" di Piero Gobetti, fondò con Ferruccio Parri e altri la rivista "Il caffè" e fu uno degli organizzatori della fuga dall'Italia di Filippo Turati. Nel 1927 perse il suo lavoro all'Umanitaria e fu confinato a Ponza e Lipari. Liberato, organizzò con Ernesto Rossi e altri il Movimento "Giustizia e libertà" e nel 1930 fu arrestato di nuovo e condannato dal Tribunale Speciale a vent'anni di reclusione. Fu liberato alla caduta del fascismo e, dopo l'armistizio, fu fra i principali organizzatori della Resistenza a Roma e, dopo la liberazione della capitale, nell'Italia del nord fu uno dei dirigenti delle formazioni partigiane del Partito d'Azione.

Quando il PdA si sciolse tornò ad occuparsi dell'Umanitaria come presidente fino al 1968.

Riccardo Bauer è autore di numerose opere, alcune pubblicate postume. Dopo la sua morte è stata creata una fondazione che recail suo nome.

giovedì 15 aprile 2010

Barocco e Montalbano

(ricordo di Primo)

di Toti

Anch’io, come molti tra quelli che gli furono vicini, voglio ricordare Primo. E lo farò dando ascolto, finalmente, all'invito che mi faceva quasi ogni volta che c’incontravamo: di contribuire ad uno o più dei blog che incessantemente creava. Ed invece io rimandavo, nell’illusione – chissà – che la vita fosse eterna, e che avrei potuto farlo un’altra volta.
Ma come i fatti hanno tristemente dimostrato, la vita purtroppo ha un termine. E tutti, quando si hanno un pò d’anni sul gobbo, “si sta come, d’autunno, sugli alberi, le foglie”.



Ragusa Ibla

Farò, e penso che Primo ne sarebbe contento, un intervento al modo de “I bei momenti”, la sua prima e fortunatissima serie, alla quale – ma ormai sono passati parecchi anni – avevo contribuito alcune volte. E che - per quel che ne so – è ancora attivamente frequentata dai navigatori del web.
L’idea mi è venuta quando, in occasione della recente campagna elettorale per le elezioni regionali, il normale tran tran televisivo è stato sconvolto dall’irrompere della “par condicio”, con nuove modalità che hanno liberato i tempi televisivi normalmente destinati ai cosiddetti talk show politici. Così su Rai Tre il consueto numero di Ballarò del martedì è stato sostituito, per qualche settimana, da episodi della serie del Commissario Montalbano. Non nuovi, naturalmente, ma sempre piacevoli a guardarsi, per la recitazione, generalmente di buon livello, ma sopratutto per la sceneggiatura eccellente e per la fotografia e le immagini. Alle quali forniscono materiale abbondante i luoghi della Sicilia sud-orientale compresi nel triangolo delimitato a nord dalla direttrice Siracusa – Gela. Sì, la Sicilia sud orientale, e non quella dell’agrigentino, nella quale Camilleri, nei suoi racconti, ha ambientato le vicende, ma usando nomi di fantasia per i luoghi. La sceneggiatura della trascrizione televisiva ha invece preferito quell’altra parte dell’isola, che è in realtà significativamente diversa da quella dei racconti. Diversa ma non meno interessante.



le chiese di San Giorgio (Modica a sin., Ragusa Ibla a destra)

Spicca in tutte le immagini l’architettura barocca delle città. Ma è un barocco lieve, elegante, mai sovraccarico, come invece è spesso quello di altri luoghi siciliani – per non parlare di quello “fiammeggiante” della Spagna. Ed è anche, in molte chiese, un barocco decisamente slanciato verso l’alto. Tanto che a me viene la tentazione di chiamarlo, malgrado l’audace cortocircuito stilistico–temporale, barocco-gotico.
Non tutte le chiese sono così, naturalmente. Ma anche quelle che non si segnalano per il loro slancio architettonico, tutte invariabilmente si conformano alla regola della sobrietà dello stile. E c’è la ragione storica. Tutta la zona infatti venne quasi completamente distrutta, nel 1693, da un forte terremoto, che costrinse ad una ricostruzione integrale, spesso accompagnata dalla “rilocalizzazione” dei centri urbani. Allora, forse, le chiamavano “città nuove”; oggi le chiamiamo “new towns”, ma sono la stessa cosa: malgrado i secoli trascorsi, non abbiamo inventato nulla.



il Duomo di Noto, ricostruito recentemente dopo un crollo

Così accadde a Noto, ricostruita in una zona piana, più in basso (e i ruderi di Noto Vecchia, che fu allora abbandonata, si visitano ancora); e così accadde a Ragusa, anch’essa ricostruita accanto al vecchio centro di Ragusa Ibla, che però, in parte, sfuggì all’abbandono, ed è oggi di gran lunga il più interessante dei due.
Non solo le abitazioni, ma anche gli edifici pubblici, ed in particolare le chiese, che caratterizzano in gran parte il patrimonio architettonico di quasi tutte le città dell'area, furono ricostruiti. La ricostruzione, in tutti i luoghi colpiti, avvenne negli stessi anni – i primi decenni del 1700, quando la Sicilia, in un periodo di grandi capovolgimenti, passò dagli Aragonesi di Spagna, ai Savoia, ed infine ai Borboni - ed a ciò è dovuta l’uniformità degli stili.
Per esempio le chiese di San Giorgio di Modica, altissima in cima ad una scenografica scalinata (oltre 200 gradini), e di San Giorgio di Ragusa Ibla, sono quasi identiche, oltre che per il Santo cui sono dedicate, anche nella struttura (ma furono progettate dal medesimo architetto, che peraltro ne costruì una terza quasi identica anche a Scicli, dedicata a San Sebastiano, e la si vede spesso in lontananza in talune inquadrature della questura di Vigata....). La chiesa di Ragusa non ha lo slancio della scalinata di quella di Modica, ma in compenso ha davanti un’oblunga piazza ornata di alte palme che le fornisce una prospettiva di grande valore.
Per inciso, Ragusa Ibla è, nella versione televisiva delle gesta di Montalbano, la Vigata dei romanzi di Camilleri.



Modica all'imbrunire

Queste sono anche le zone delle “cave”. Che non sono cave di pietra, come il nome potrebbe far pensare. Si indicano così invece, da quelle parti, delle valli, spesso gole profonde e ripide, veri e propri canyon, scavate, nel corso di millenni, dai fiumi. I quali, contrariamente che nel resto della Sicilia, sono qui frequenti ed alimentati anche d’estate. La più famosa di queste gole è quella di Pantàlica, oggetto peraltro di uno de “I bei momenti” inventati da Primo; ma ce ne sono altre di bellezza comparabile, come la Cava Grande di Cassibile, che sbocca al mare tra Siracusa ed Avola, in prossimità della storica località che le dà il nome, e che in parecchi punti ricorda i fiumi della Corsica.



una conca nella "Cava Grande di Cassibile"

E’ proprio in queste “cave” – naturalmente quelle più ampie – che si sono sviluppate molte delle città di queste zone, forse per la presenza stessa del fiume. Modica, Scicli, Ispica, e molte altre, sono cresciute nelle cave. Lo si vede subito, anche dalle foto: ampi solchi, i cui fianchi sono ormai totalmente occupati da case; e sono spettacolari quinte scenografiche per i monumenti – in particolare le chiese – che vi sono stati costruiti nel corso della loro lunga storia. Il già menzionato duomo di Modica sfrutta per l’appunto – con la lunga scalinata che lo precede – la fiancata di una cava, che accentua quello slancio “gotico” di cui parlavo prima. E l’aspetto, d’estate all’imbrunire – quando si accendono le prime luci nelle case e nelle strade, ma la luce del tramonto non è ancora estinta - è quello di un presepio.



Scicli, un rione con al centro la chiesa di S.Maria la Nuova

Non si può parlare di queste zone senza menzionare Siracusa. A parte il teatro greco - d’estate sempre usato per riproporre ad un pubblico numerosissimo le tragedie di Sofolcle, Euripide ed Eschilo; e le “latomie” (antiche cave, ma vere cave di pietra queste!), le catacombe, ed infiniti altri luoghi, classica meta del turismo internazionale, mi sento di raccomandare il centro storico della città: bellissimo, trascuratissimo – ma mi dicono che ora è stato restaurato in gran parte – e....barocchissimo. Qui vi mostro due immagini del Duomo, barocco naturalmente; che ha la particolarità di essere – credo – l’unica chiesa al mondo costruita su un tempio greco, le cui colonne si possono intravvedere all’interno, incorporate nei muri perimetrali.



duomo di Siracusa, con un particolare dell'interno

Andateci, se potete, in novembre o dicembre: non fa ancora molto freddo, l’atmosfera è trasparente come cristallo ed è molto probabile che non piova. E l’isola è tutta verde, mentre da giugno a settembre è tutta gialla di messi, ed il caldo - specie nei giorni di scirocco - rende l'aria greve e poco trasparente.



da sinistra a destra: un balcone a Scicli, chiesa dell'Annunziata a Palazzolo Acreide, chiesa di S.Bartolomeo a Scicli, una via di Noto

venerdì 9 aprile 2010

Pasquale Barbella. Il mondo in uno slogan

di Gauss

Si fa presto a pensare male della pubblicità, a tacciarla di falsità e artificiosità, a sostenere che se non ci fosse vivremmo in un mondo migliore, ma Pasquale Barbella esordisce rifacendosi al mondo naturale, agli uccelli che nella stagione degli amori esibiscono il loro piumaggio più cromatico e appariscente per evidenziare virtù normalmente recondite, e proporsi, e farsi preferire. E' la natura stessa che ha ideato per loro suadenti messaggi pubblicitari mirati ad un obiettivo utilitaristico. Ciò che si potrebbe dire anche dei giovanotti palestrati o delle ragazze imbellettate e siliconate, tutta pubblicità.

Lo confesso, ieri sera alla prima delle conferenze primaverili di Novaluna, per questo ciclo centrato sulle tematiche dell'informazione, mi aspettavo di incontrare lo stereotipo del pubblicitario, estroverso, supponente, stravagante nell’abbigliamento e nel comportamento (pubblicità erronea?), e mi sono trovato ad ascoltare un professore in elegante completo grigio, barba ben curata, occhiali a stanghetta, dall’eloquio pacato e meditato, attento ad evitare inglesismi e gergo specialistico, mai, se non ironicamente, autoreferenziale.

Pasquale Barbella ha fatto la storia della pubblicità italiana, nessuno come lui ne conosce miti e riti, nessuno come lui ne sa illustrare i meriti e smascherare i difetti. Al punto da elencarli e metterli a confronto, la lavagna delle vergogne opposta alla lavagna dei pregi.

E’ solo persuasione occulta, sì, ma finanzia la stampa e le consente di mantenersi libera. Fomenta il consumismo, certo, ma così facendo sostiene l’economia. Racconta un sacco di balle, forse, è il rischio che corrono i creativi. Deforma la realtà, come no, mette perfino Bonolis in paradiso, ma è divertente, senza sarebbe un mondo triste. E’ diseducativa, non se ne può più, beh, in televisione è sempre meglio dei programmi che interrompe.

La pubblicità, prosegue Barbella, si fonda su una componente di emozionalità e una di razionalità, entrambe essenziali, e il suo successo dipende dal loro giusto dosaggio. La tradizionale pubblicità italiana, quella che ha reso celebri i manifesti italiani (basti ricordare Marcello Dudovich), faceva leva sull’eleganza formale, mentre quella di scuola americana, che ha preso il sopravvento dopo la guerra mondiale, privilegiava i contenuti logici e razionali, pretendendo di elevarla al rango di scienza.

E’ a questo punto che Barbella ci introduce a Bill Bernbach, l'uomo che ha rivoluzionato la pubblicità moderna, il genio che l'ha resa un’arte ispirata all’etica della verità, al principio del rispetto del pubblico, nella convinzione che il mercato reagisce favorevolmente a un messaggio intelligente, propositivo, onesto. L'idea base che gli ha assicurato il successo è racchiusa in una massima per la quale va giustamente famoso: «La pubblicità non può creare il vantaggio di un prodotto, lo può solo illustrare».

E la politica? Certamente, c’è molto di tecnica pubblicitaria nella politica italiana, non solo per il ricorso ai sondaggi di gradimento, l’adozione di slogan, l’uso sempre più diffuso dell’immagine (la faccia del leader 3x6), l’identificazione selettiva dei target group (bacini elettorali), ma più ancora per i metodi che sembrano guidare l’attuale azione di governo. A titolo di esempio, Pasquale Barbella osserva che la ricorrente, martellante argomentazione politica del nostro tempo «Lo faccio perché l’elettorato mi ha scelto» è pubblicità (e, per come lo osserva, non delle migliori).

Gauss

Nelle immagini:
- Pasquale Barbella con Annalisa Bemporad
- La Balilla, l'eleganza per tutti (illustrazione di Marcello Dudovich)
- Il pane azzimo Levi's, buono non solo per gli ebrei (campagna pubblicitaria ideata dallo studio DDB di Bill Bernbach)