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mercoledì 14 dicembre 2011

fotografia come mappa

di Azzurra Scattarella

Anche in occasione dell'incontro con Francesco Zanot del 24 novembre scorso Azzurra Scattarella non ha fatto mancare la bella recensione alla quale ci ha abituato: eccola.
Anche questa volta ringraziamo di cuore l'autrice e gli amici di vorrei :

mercoledì 23 novembre 2011

“L’arte non serve a niente” - Emilio Isgrò tra ironia e provocazione

di Giorgio Casera

questa la recensione della serata che compare nel giornale on-line PD Monza di oggi.
Ringraziamo Giorgio e il PD per l'attenzione.


La provocazione era già evidente nel titolo scelto per la conferenza organizzata da Novaluna all’interno della mostra di antiche stampe all’Arengario, svoltasi il 10 novembre u.s.:

Affermazione che Isgrò ha giustificato col fatto che la creatività, tradizionalmente appannaggio esclusivo dell’arte, è ormai lineamento essenziale di tanti aspetti della vita quotidiana. Così ha accennato alla politica creativa, alla finanza creativa e così via, con chiari ed ironici riferimenti a personaggi e vicende nazionali.

Fatta questa premessa, Isgrò ha presentato una carrellata delle opere più significative della sua lunga carriera, datate dal 1964 al 2010, il cui filo conduttore si può così sintetizzare: ogni opera deve rappresentare allo stesso tempo innovazione, rottura con schemi consolidati, provocazione, per suscitare interesse, proteste, discussione. Alla fine però il risultato è un ampliamento degli orizzonti culturali e, nel caso di Isgrò sicuramente, crescita della società civile.

La più originale forma artistica che Isgrò ha voluto sperimentare è la “Cancellatura”, che così ha voluto definire: "La cancellatura non è una banale negazione ma piuttosto l’affermazione di nuovi significati" oppure “la cancellatura è come lo zero in matematica, chiamato a formare, da solo tutti i numeri e tutti i valori”. Dalla Volkswagen cancellata nel 1964, alla Costituzione cancellata e al "Disobbedisco" con cui ha provocatoriamente presentato la grande installazione "Sbarco a Marsala" davanti a Napolitano, Isgrò ha usato il gesto della negazione del sapere codificato per mettere a nudo contraddizioni, ipocrisie, falsità.

Dice l’artista: “io cancello le parole per custodirle, è un gesto di salvezza. Le mie tecniche di linguaggio espressivo mi consentono di sparire per poi riemergere”.

Delle opere illustrate, tutte egualmente di un certo impatto (cioè positivhttp://www.blogger.com/img/blank.gifamente scioccanti) vorrei seghttp://www.blogger.com/img/blank.gifnalare Brigitte Bardot: particolare ingrandito 147 volte e Karl Marx fuma nel rosso vestito di rosso, opere pienamente in linea con il titolo di questo articolo. Ha citato anche come esperienza fondamentale in America nel 1963, in viaggio per un mese con il presidente Kennedy alla ricerca di fondi elettorali per il partito democratico: un uomo affascinante, lo definisce.

La presentazione completa è presente sul sito di Novaluna e consiglio vivamente di consultarla per avere una panorama completo dello stile, dei contenuti e anche dell’evoluzione dell’artista. Il quale, da buon conferenziere (anche) ha presentato ogni opera riferendo degli aneddoti sul periodo della realizzazione, sui personaggi coinvolti, sia committenti che politici presenti all’inaugurazione.

lunedì 21 novembre 2011

Emilio Isgrò, "L'arte non serve a niente"

di Azzurra Scattarella

Anche in occasione dell'incontro con Emilio Isgrò del 10 novembre scorso gli amici di vorrei hanno voluto dedicarci spazio e attenzione: anche questa volta una bellissima recensione a firma di Azzurra Scattarella, che inseriamo qui con grande piacere. Ringraziamenti vivissimi alla rivista e all'autrice.



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Emilio Isgrò al secondo appuntamento della rassegna "La Città Rappresentata" organizzata da Novaluna all'Arengario di Monza, parla dell'arte, della sua funzione e delle sue opere

Chi di arte ci è vissuto e ci vive ancora, può permettersi il lusso e la retorica di dire che "l'arte non serve a niente", capirete adesso perché.

Settantaquattro anni, Emilio Isgrò è stata una delle figure più attive nel panorama artistico e d'avanguardia dell'Italia dagli anni '60. Siciliano di nascita, trapiantato a Milano dal 1956, Isgrò è stato artista, giornalista, scrittore, drammaturgo, ma soprattutto un grande comunicatore, perché con le sue opere riesce a parlare, nonostante siano state le cancellature a dargli il successo. Nel 1964 Emilio Isgrò ha cominciato a cancellare: testi importanti dai quali ha eliminato frasi e parole, quali la Costituzione o l'Enciclopedia Treccani, stravolgendo il significato degli stessi, oppure immagini vuote o colore su colore, in cui a parlare era una breve didascalia. Emilio Isgrò ha rivoluzionato l'arte visiva ed è stato l'iniziatore delle opere concettuali. La sua teoria delle cancellature, ufficializzata dalla Dichiarazione 1, nasce dal bisogno di eliminare il superfluo, il rumore, l'inutile da una società carica e ridondante di segni, per ritrovare ed esaltare il vero significato delle cose importanti. Questa idea si pone all'interno di una teoria dell'arte concettuale più ampia, esemplificata nella sua poesia visiva, in cui immagini, fotografie, parole e cancellature creano un insieme spiazzante e contestatorio.

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L'Enciclopedia Treccani cancellata da Isgrò

La sua verve polemica non si esaurisce negli anni. Invitato a Monza dall'associazione Novaluna per la rassegna sulla Città rappresentata giovedì 10 Novembre 2011, Isgrò ha deciso di chiamare la sua relazione o conferenza "L'arte non serve a niente". Che detto da lui non vuol dire niente, anzi, afferma negando proprio come le sue opere. Come lui stesso spiega, ha scelto appositamente un titolo provocatorio "perché l'arte dev'essere provocazione, l'arte che si rispetta deve porre problemi". Il motivo è semplice e tautologico: l'arte serve a far sognare la società e a farla crescere. Per far ciò dev'essere disinteressata e senza prezzo, né avere scopi divertenti o di intrattenimento. Anche su questo Isgrò ha parecchio da ridire: sulla politica fatta di barzellette, parolacce e colpi da affabulatore o sulla finanza che è diventata addirittura "creativa". Isgrò si chiede "che razza di mondo è questo?". L'unica cosa creativa deve essere l'arte, nonostante il mestiere dell'artista sia faticoso e pesante, e artisti non si nasce, ma si diventa – a suo parere.

Alcuni l'hanno chiamato rivoluzionario, altri l'hanno voluto includere tra gli artisti di avanguardia. Ma lui risponde così: "Non sono un artista d'avanguardia. L'artista di avanguardia vuol sempre dire qualcosa, imporre significati al mondo: e il nostro mondo, a forza di significare, alla fine non significa più nulla. Io non aggiungo significati alle cose, levo alle cose i loro significati. Tutti i significati, nessuno escluso. Anche così si combattono i tiranni, quelli palesi e quelli mascherati". Insomma, un contestatore, però lo è sempre stato. Anche nel modo di fare le cose più semplici: durante l'esposizione presso l'Arengario mostra diapositive di sue opere celebri in ordine sparso, né cronologico né tematico, illustrandone la creazione e il motivo per via emotiva, seguendo ciò che i ricordi gli suscitano. Si diverte ed affascina quando racconta la storia del suo monumentale Seme D'arancia, posto a Barcellona Pozzo di Gotto, suo paese natìo. Decise di fare quest'opera in onore del prodotto più tipico della sua terra, per segnalare la produttività e la forza di ripresa sella Sicilia: un gigantesco seme d'arancio nel mezzo di un giardino piccolo in uno dei luoghi più degradati della città. Naturalmente, la sua posizione è significativa. Serve a svegliare gli indifferenti. Ora è in causa con il Comune perché l'hanno spostato senza neanche avvisarlo – e poi il Seme non piaceva al nostro ex Presidente del Senato, oltre che a qualche altro ex Ministro conterraneo...

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Certo, non era la prima volta che Isgrò faceva arrabbiare qualcuno con le sue creazioni. Prendiamo la Volkswagen, che gli ordinò il ritiro della sua famosa opera. Il trionfo della meccanizzazione della società, ha fastidiato Volskwagen e Chiesa in un colpo solo. In risposta alla pop art americana, in cui tutto viene moltiplicato, esaltato, colorato, Isgrò presenta il suo Particolare di Brigitte Bardot ingrandito 147 volte o il famosissimo Jaqueline, dove a trionfare è la sua idea di cancellatura, totale: l'immagine non c'è, la tela è vuota. Quest'opera è stata considerata il primo esempio di arte concettuale in Europa e Isgrò la commenta così "la poesia visiva era il tentativo si salvare la parola grazie all'immagine". Capiamo anche il perché della cancellazione della Costituzione, un monito contro quello che non si deve mai dimenticare e cancellare,o la Treccani, simbolo del libro di una cultura che inesorabilmente sta tramontando.

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La Volskwagen di Isgrò

Emilio Isgrò ha costruito opere enormi e semplicissime, ha collaborato ed è stato intimo amico di Arturo Schwarz, a cui vendette uno dei suoi primi libri cancellati; ha lavorato per la CEI per cui ha cancellato la storia del Vitello d'oro e in Turchia, dove ha cancellato ben quattordici codici ottomani. Celeberrima è stata l'allestimento nel 1979, alla Rotonda della Besana di Milano, di Chopin, partitura per 15 pianoforti, in cui l'artista ha immaginato la vita di Chopin oppresso dalla sua stessa fama, dal suo genio e dal suo amore appassionato per George Sand, distribuendo pianoforti e partiture cancellate per motivi paranoici e futili al tempo stesso, ironicamente ideati da Isgrò. Poesia visiva e arte concettuale, parole che insieme fanno paura e non vogliono dire niente, diventano ricche di senso quando le si guarda fatte da Isgrò. La sua è un'arte che comunica direttamente, frutto di uno spirito indomito e attento, pronto a criticare ciò che non va, a scatenare dubbi, a creare connessioni, ad aprire a nuove idee e a fare delle differenziazioni. L'arte serve a cambiare la società e il modo in cui si guardano le cose anche le più semplici, come le parole, che forse dovrebbero essere le prime a essere rivoluzionate. Un compito molto difficile, quello di rivoluzionare il linguaggio, cui probabilmente si preferisce quello di far soldi, commenta sarcasticamente Isgrò, con un tono di amarezza, verso quei giovani per il quale sente di avere una responsabilità. Difatti, l'impegno nella vita sociale dell'arte è sempre stato reale per Isgrò: sostenitore della necessità di comunicare tra pubblico e artisti, nonché tra artisti e artisti, ha partecipato alla Cooperativa degli Artisti nel 1977, e oggi si batte per una politica seria, "fatta di grisaglia", rispettosa e lontana da atteggiamenti ridicoli e da show-business (chissà se Monti l'ha accontentato).

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Il famoso e travagliato Seme d'arancio donato alla città di Barcellona Pozzo di Gotto


Ancora una volta, Isgrò stupisce e affascina, e Novaluna merita un plauso per aver invitato l'artista e organizzato l'evento. Per vedere tutte le opere mostrate da Emilio Isgrò durante l'incontro del 10 novembre, rimandiamo al sito di Novaluna.

Biografia di Emilio Isgrò Nato a Barcellona Pozzo di Gotto (ME) nel 1937, si trasferisce a Milano nel 1956. Fin dagli esordi accompagna la produzione artistica con l'attività di scrittore e poeta. Pubblica in quell'anno la raccolta poetica Fiere del Sud per le Edizioni Arturo Schwarz. Nel 1964 realizza le prime Cancellature, enciclopedie e libri completamente cancellati, con i quali contribuisce alla nascita e agli sviluppi della Poesia Visiva edell'Arte Concettuale. Nel 1966, in occasione della mostra alla Galleria Il Traghetto di Venezia, pubblica Dichiarazione 1, in cui precisa la sua personalissima concezione di poesia come "arte generale del segno". Nel 1972 è invitato alla XXXVI Biennale d'Arte di Venezia, a cui parteciperà anche nel 1978, nel 1986 e nel 1993. Nel 1977 riceve il primo premio alla XIV Biennale d'Arte di San Paolo del Brasile. Nel 1979 alla Rotonda della Besana di Milano presenta Chopin, partitura per 15 pianoforti. Nel triennio 1983-1985 dà l'avvio con la trilogia L'Orestea di Gibellina ai grandi spettacoli della Valle del Belice. Nell'Anno Europeo della Musica (1985) il Teatro alla Scala gli commissiona l'installazione multimediale La veglia di Bach, allestita nella Chiesa di San Carpoforo a Milano. Nel 1990 elabora un nuovo testo teorico dal titolo Teoria della cancellatura per la personale alla Galleria Fonte d'Abisso di Milano. Nel 199 partecipa alla collettiva The artist and the book in twentieth-century Italy organizzata dal MoMA di New York e nel 1994 a I libri d'artista italiani del Novecento alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia. Nel 1996 Mondadori stampa Oratorio dei ladri. Nel 1998 dona al suo paese natale il gigantesco Seme d'arancia, simbolo di rinascita sociale ed economica dei paesi mediterranei. Nel 2001 inaugura l'antologica Emilio Isgrò 1964-2000 nel complesso di Santa Maria dello Spasimo a Palermo. Nel 2002 espone alla Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento e l'anno seguente al Mart di Trento e Rovereto. Nel 2008 il Centro per l'Arte Contemporanea "Luigi Pecci" di Prato ospita l'importante retrospettiva Dichiaro di essere Emilio Isgrò. Attualmente è in corso la personale Fratelli d'Italia presso il Palazzo delle Stelline a Milano. Vive e lavora a Milano.

martedì 8 novembre 2011

Monza & la Brianza nelle antiche stampe.

di Azzurra Scattarella

In margine all'incontro con Cristina Muccioli del 27 ottobre scorso è comparsa sulla rivista vorrei , che ringraziamo, una bella recensione a firma di Azzurra Scattarella, che pure ringraziamo.
abbiamo chiesto e ottenuto di poterla inserire qui

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Una mostra e un ciclo di conferenze organizzato da Novaluna
per parlare di Monza e delle sue immagini
È stata inaugurata il 22 ottobre presso la prestigiosa sede dell'Arengario di Monza la mostra "Monza & la Brianza nelle antiche stampe", organizzata dall'associazione culturale Amici dei Musei e l'associazione Novaluna.
Collegata alla mostra - molto interessante e ampia, raccoglie stampe e cartografie anche del XIV secolo, esposte in senso antiorario, visitabile dal martedì al venerdì dalle 16 alle 19, il sabato e la domenica anche di mattina –Novaluna ha organizzato un ciclo di incontri, ogni due giovedì alle 21 all'Arengario, sul concetto di immagine della città, sia essa stampata, fotografata o disegnata, della città, chiamando a discettarne professionisti del settore.
Il primo incontro in Arengario, avvenuto il 27 ottobre 2011, con titolo "La città e il paesaggio. Dall'incisione classica all'immagine contemporanea" ha visto salire in cattedra una vecchia conoscenza dell'associazione, la storica dell'arte e professoressa di Etica della comunicazione presso l'Accademia di Brera (nonché collaboratrice di Linus e autrice di diversi libri) Cristina Muccioli.
La serata inizia con la presentazione del presidente Giorgio Crippa e l'arrivo di un cospicuo numero di interessati. L'intervento della Muccioli ha sapore di premessa al ciclo di incontri, sia a causa del suo essere prima conferenziere che per il tema cui si è dedicata.
La Muccioli inizia con i complimenti per l'intelligenza di una mostra così apparentemente demodé (una mostra su incisioni seicentesche? Bah!): se ormai nulla è più possibile creare nel mondo dell'arte (il che non significa che l'arte è morta), brilla e ha decisamente molto senso d'esistere ogni intervento a favore della riscoperta e valorizzazione del passato e delle radici dell'arte stessa. Del resto, l'intero mondo delle incisioni, delle stampe e litografie, è sempre stato denigrato e sottovalutato dall'arte ufficiale, mentre esse rappresentano un patrimonio artistico importante, intrinseco dell'uomo: basti pensare alle incisioni rupestri, primo veicolo dell'espressività umana. Eppure questa tecnica è sempre stata trattata con snobismo, poiché essa si avvale di una macchina, di un 'facilitatore', aspetto che diventa un diminutivo per i critici e gli artisti, e che ne ha impedito la giusta qualificazione.
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In un'affascinante e ricco di citazioni filosofiche (Aristotele in primis) breve tracciato di storia dell'arte incisoria, che nasce con i caratteri mobili e l'invenzione della stampa, Cristina Muccioli regala anche chicche e aneddoti poco conosciuti del mondo artistico, da Canaletto e seguaci, passando per l'Accademia di Brera, rimarcando l'etimologia della parola grafite, la stessa di graffio, nonché di grafia. Avrebbe infatti voluto chiamare il suo intervento "La mano che graffia", sottolineando l'idea di lasciare il segno, di imprimere la propria idea su di un supporto, creando una ferita, la cui cicatrice (su una tela, su un dipinto, su una lastra) altro non è che la cultura stessa.
Una mostra che ha toccato le corde più sensibili del suo amore per l'arte, così dice Cristina Muccioli, e che lascia gli spettatori in attesa di seguire il prossimo incontro, nonché curiosi di riguardare le opere esposte con più accuratezza.

mercoledì 31 agosto 2011

Mario Fumagalli

di alberto

Ancora un lutto, ancora un grande dispiacere.
E' morto Mario Longhi Fumagalli.
Con la sua agenzia, Contemporanea in via Vittorio Emanuele,
uno spazio chiaro e razionale, costruito a sua immagine e somiglianza,
era diventato un punto di riferimento
per la comunicazione e per la grafica in città.




Lo conoscevo di vista per averlo incontrato quasi quotidianamente,
senza peraltro mai scambiarci una parola,
sui treni dei pendolari tra Monza e Milano.
Poi ho avuto la fortunata occasione di collaborare con lui,
e ho avuto modo di apprezzarne le doti professionali e quelle umane,
l'apertura mentale, l'ironia, la grande disponibilità.

La commissione comunale per le festività civili,
di cui facevo parte, mi incaricò di coordinare il lavoro
per la realizzazione di un libro sui deportati monzesi
nei campi di sterminio nazisti.
La parte storica era stata affidata al professor Mantegazza,
mentre Mario aveva avuto l'incarico di curare la parte grafica.
Malgrado le miserrime condizioni economiche
ne nacque un volumetto, Al di là del niente
che mi sembra ancora un risultato esemplare.
















Per Novaluna aveva elaborato, per pura amicizia,
e quando già aveva cominciato a stare poco bene
- forse per prender le distanze dalla malattia -
quello schema di comunicazione coloratissimo e vivacissimo
che ancora oggi utilizziamo per i nostri incontri.
Addio, Mario. E' stato bello conoscerti.

sabato 23 aprile 2011

Paolo Biscottini - L'opera d'arte dell'800 e le tensioni risorgimentali

Gauss

Paolo Biscottini è personaggio
ben noto ai monzesi. Prima di assumere il suo attuale incarico di direttore del Museo Diocesano di Milano, da lui fondato nel 1998, ha diretto i Musei Civici e la Villa Reale di Monza ed è stato illuminato ispiratore della vita culturale della nostra città.
Nel programma di celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, Novaluna lo ha invitato a tornare a Monza per un esame critico del Risorgimento visto e interpretato attraverso la pittura del tempo. Il tema della serata, “L’opera d’arte dell’800 e le tensioni risorgimentali” per Biscottini è stata anche occasione di ritorno a quelle ricerche sull’Ottocento lombardo, cui proprio a Monza si era lungamente e intensamente dedicato.
La relazione di Biscottini sostiene con dovizia di documenti di supporto, senza reticenze e senza cedimenti all’apologia patriottarda, una tesi stimolante e imbarazzante, che la pittura risorgimentale italiana è più bella che vera. Non c’è, nelle opere dei pittori dell’epopea unitaria, la rappresentazione realistica, cruda e dolente, degli eventi sconvolgenti che hanno portato alla unificazione della penisola sotto la monarchia dei Savoia. Sul fatto prevale l’interpretazione, la narrazione veritiera cede il passo all’evocazione estetica, sentimentale, intimistica. Nella descrizione edulcorata e retoricamente encomiastica delle vicende fondative dello Stato italiano, sopravvissuta fino ai nostri giorni, Biscottini legge l’intento deliberato di relegare in secondo piano, se non proprio di nascondere, il lato conflittuale, i problemi irrisolti, le difficoltà e le carenze, sia culturali che economiche che politiche, del processo di fusione degli Stati pre-risorgimentali in una entità politica unitaria. Ciò che fa ritenere che ancora oggi la nazione italiana sia una grande incompiuta e impone al tempo presente il dovere di una rivisitazione critica.

La tesi di Biscottini prende forma e sostanza nel commento ad una lunga e avvincente sequenza di proiezioni di opere pittoriche, che prende le mosse dalla coeva pittura francese.
Siamo nel 1819 e la tragica vicenda dei naufraghi della nave Medusa abbandonati su una zattera, con i susseguenti episodi di violenza e di sopraffazione fra i sopravvissuti sconvolge la Francia. Géricault se ne fa interprete con un’opera, la Zattera della Medusa, che fa sensazione e suscita vive proteste per il crudo realismo della rappresentazione. I giovani corpi esanimi in primo piano, il vecchio desolato che non si rassegna ad abbandonarli alla furia del mare, i drappi drammaticamente sventolati verso un lontanissimo invisibile vascello, il romantico tumulto delle passioni immerso in quello altrettanto violento della natura dicono, con le parole di Biscottini, l’eroismo della verità.
Thèodore Gèricault, Zattera della Medusa, 1819

Altrettanto cruenta e veritiera è la Libertà che guida il popolo di Delacroix. In primo piano il macabro realismo della morte sulle barricate apre la strada alla Libertà, una fanciulla seminuda che, berretto frigio in testa, avanza imbracciando il fucile e sventolando il tricolore. Al suo seguito, in un clima di forte entusiasmo romantico, la partecipazione di tutte le classi sociali del popolo francese, il borghese, il proletario, il soldato, il bambino.
Eugéne Delacroix, Libertà che guida il popolo, 1930
Nell’opera di Gros Napoleone sul campo di battaglia di Eylau, l’imperatore attraversa il campo di battaglia dopo il combattimento, con ancora in primo piano una forte notazione realistica data dai morti e dai feriti della più sanguinosa delle battaglie napoleoniche. Napoleone si erge sul livido scenario della pianura russa come il vincitore che è anche pacificatore e soccorritore, e il suo esercito come la forza che libera i popoli dalla tirannia. Antoine-Jean Gros, Napoleone sul campo di battaglia di Eylau, 1808
La camicia bianca illuminata, simbolo di innocenza, del martire dell’insurrezione contro la dominazione francese nei Fusilamientos del tres de mayo di Goya si staglia nella notte nera, il colore della morte, che copre Madrid. Le braccia del condannato, alzate e aperte come nel crocifisso, si oppongono alla lugubre, disumana schiera dei fucilatori senza volto. Da questo quadro, divenuto simbolo universale della rivolta per la libertà popoli, emana l’eroismo della libertà.
Francisco Goya, Fusilamientos del tre de mayo, 1814
Lo stesso eroico anelito di pace e di libertà che ritroviamo nell’urlo disperato e lacerante di Guernica di Picasso, l’ultimo grande dipinto dedicato ad una guerra, il manifesto che denuncia al mondo intero la crudeltà e l'ingiustizia della guerra.Pablo Picasso, Guernica, 1951

Nella pittura risorgimentale italiana questa forza di autenticità storica non si trova .

Pochi anni prima dei Fusilamientos di Goya in Spagna, Appiani in Italia lavora ai Fasti di Napoleone, un ciclo di esaltazione, una sorta di epopea classicheggiante racchiusa entro una cornice letteraria.
Andrea Appiani, Fasti di Napoleone, 1808
Nel celebre quadro Gli abitanti di Parga che abbandonano la loro patria Hayez sceglie di dipingere una storia greca per dire cose italiane. Nella sua elegante compostezza, il popolo di Parga costretto all’esilio sembra atteggiato nel gesto artificioso di una parata teatrale, così come scenografica appare sullo sfondo la città arroccata e stretta fra i monti e il mare. Francesco Hayez, Gli abitanti di Parga abbandonano la loro patria, 1826-31
Similmente scenografico è l’intento pittorico dell’Induno nella Battaglia della Cernaja. La vicenda bellica cui si ricollega sembra quasi presa a pretesto per una superba rappresentazione del paesaggio, cui va tutta l’ammirazione dell’osservatore a scapito dell’attenzione per i fatti e i personaggi.
Gerolamo Induno, Battaglia della Cernaja, 1857
Meno retorico e più convincente è il Fattori dell’Assalto a Madonna della Scoperta o Episodio della battaglia di San Martino, una meravigliosa descrizione di una pagina di storia colta nel momento in cui, sul campo di battaglia cosparso di caduti, si sta preparando la carica di cavalleria che ne deciderà l’esito vittorioso.Giovanni Fattori, Assalto a Madonna della Scoperta, 1864-68

La Presa di Palestro del 30 maggio 1859 è una scena di battaglia vista dalle retrovie, come spesso accade ancor oggi nei reportage di guerra. L’ammassamento di soldati è ripreso dall’Induno in atteggiamento di innaturale staticità mentre il clamore e l’orrore dello scontro sono solo intuìti dalla nube di fumo che, come una domanda che impedimenti politici lasciano senza risposta, si alza dal villaggio conquistato. Gerolamo Induno, Presa di Palestro del 30 maggio 1859, 1860
Ancor più immagine da inviato sul fronte di guerra è la Battaglia di Magenta dell’Induno, concentrata com’è sui dettagli militari dell’evento, resi in maniera raffinata e puntuale. L’intera composizione, che pure presenta in primo piano i corpi dei caduti di entrambi gli schieramenti (citazione letteraria da Delacroix?), è dominata e quasi contraddetta dall’oleografico lirismo del paesaggio, con i pioppi che proiettano il loro tremulo profilo contro un cielo azzurro impreziosito da nubi rosate. Gerolamo Induno, Battaglia di Magenta, 1861

La carica dinamica dello scontro bellico è invece efficacemente presente nella Battaglia di Varese di Faruffini, una complessa vista ravvicinata dell’attacco di un reparto dei Cacciatori delle Alpi ad una postazione austriaca. Protagonista dell’azione drammatica è la figura di Ernesto Cairoli colto, come in un’istantanea fotografica, nel momento in cui viene colpito a morte. Federico Faruffini, Battaglia di Varese, 1862

Con la Scena delle Cinque giornate di Milano abbiamo un primo ragguardevole esempio di interpretazione in chiave sentimentale, intrinsecamente melodrammatica, dell’epopea risorgimentale. In una composizione di accademica gestualità, un amorevole abbraccio muliebre, assecondato dal pianto del figlioletto, trattiene il vigore bellicoso del marito ribelle, spada sguainata in mano e bandiera tricolore sulla spalla.
Anonimo, Scena delle Cinque giornate di Milano, 1848-49
Al genere della pittura aneddotica popolare appartiene la Trasteverina uccisa da una bomba, che si ispira ad un fatto realmente accaduto, la morte di una giovane cucitrice vittima dello scoppio di una bomba francese. La luce che penetra dallo squarcio nella parete illumina parzialmente il corpo esanime della fanciulla che sembrerebbe dormire, se non fosse per una piccola macchia di sangue sulla fronte. Un’opera concepita in una dimensione intima, che aspira a testimoniare un periodo cruciale della storia patria nella vicenda sfortunata di un singolo, anonimo personaggio popolare.
Gerolamo Induno, Trasteverina uccisa da una bomba, 1850
Una luminosa tiepida aria primaverile investe dalla finestra spalancata una giovane donna intenta a cucire il tricolore in 26 aprile 1859, il giorno precedente l’abbandono di Firenze da parte del granduca Leopoldo II. E’ un quadro di intonazione realista, che sembra relegare la donna del Risorgimento a un ruolo ristretto nei confini dell’etica casalinga, lontano dai luioghi e dai momenti storicamente determinanti. Odoardo Borrani, 26 aprile 1859, 1861
In una calda atmosfera domestica è avvolto anche il Racconto del ferito, in cui l’attenzione della famiglia alla narrazione del soldato ferito in battaglia testimonia la diffusa partecipazione popolare agli avvenimenti risorgimentali. La guerra è descritta in maniera indiretta, il pittore non intende tanto ritrarre né la ferita né il ferito né il feritore quanto proporre il racconto della ferita come esaltazione mediata di eroismo. Gerolamo Induno, Racconto del ferito,1866
La Sepoltura Garibaldina si iscrive nel genere dell’allegoria. Il sacrificio del garibaldino è rappresentato attraverso il dolore di due giovani donne accanto alla sua bara. Come e perché sia morto non vale sapere, conta la commozione delle donne, e con la loro quella dell'osservatore, per la sua morte. Filippo Liardo, Sepoltura garibaldina, 1862-64

Della pace di Villafranca, un trattato controverso e storicamente cruciale nello svolgimento delle Guerre d’Indipendenza, il Bollettino del giorno 14 luglio 1859 che annunziava la pace di Villafranca dà un’illustrazione da gazzetta popolare. La quinta teatrale, l'ampia apertura sul paesaggio con il profilo del Duomo di Milano in lontananza, la disposizione e la posa dei personaggi, la varietà dei tipi umani e dei costumi compongono un quadro studiatamente melodrammatico, un'elaborazione pittorica che echeggia Verdi e Manzoni (e ignora Mazzini).
Domenico Induno, Bollettino del giorno 14 luglio 1859 che annunciava la pace di Villafranca, 1862
E' con Mosè Bianchi che la pittura patriottica si appropria dei valori di veridicità e di forza di convincimento. Ne I Fratelli sono al campo tre donne che, per vesti e atteggiamento, appaiono di diversa estrazione sociale, si trovano accomunate nell'ansia per la sorte dei loro cari che mettono a rischio la vita nei combattimenti per l'indipendenza e l'unità d'Italia. Le tre donne pregano in solitario raccoglimento ai piedi dell'altare di una chiesa, da molti particolari riconoscibile come il Duomo di Monza e il loro abbigliamento allude al tricolore d'Italia. L'impersonalità delle tre figure, ottenuta con il nascondimento del volto, mira a suggerire che ogni donna d'Italia è partecipe della loro trepidazione. L'essenzialità della composizione inserita nella penombra sacrale dell'ambiente esprime una sincerità di sentimenti anticipatrice della pittura del Novecento.
Mosè Bianchi, I fratelli sono al campo, 1869
Gauss



venerdì 15 aprile 2011

Quattro gatti e una "chicca"

di giorgio casera

Johann Sebastian mi perdonerà se chiamo “chicca” la sua Passione secondo Giovanni, mentre l’espressione “quattro gatti” è perfettamente idonea a definire il pubblico presente al concerto. Ma andiamo con ordine.


Lunedì 11 ricevo una nota da Elena Colombo che mi informa che uno dei capolavori di Bach, appunto la Passione secondo Giovanni sarà rappresentata mercoledì 13 alle 21 nella chiesa di S. Maria del Carrobiolo. Nella nota si fa riferimento ad un sito dove scopro che il concerto è il primo di una serie denominata “Musica antica a Villa Reale” che si svolge tra aprile e novembre di quest’anno; il programma è di “alti e bassi”, secondo il mio gusto personale, comunque interessante in questi tempi di cultura svillaneggiata. Rilevo anche che l’organizzatore della serie è il Consorzio Villa Reale e Parco di Monza, molto discusso a seguire le cronache del consiglio comunale; forse è la prima manifestazione che promuove?
Tengo queste considerazioni per me e mi affretto ad avvisare i due amici appassionati (di classica e di barca a vela) vista la scadenza a breve. Naturalmente verranno anche loro e ci accordiamo per recarci alla chiesa per tempo (il primo concerto della serie, questo concerto, è gratuito, e la chiesa, dove ho assistito ad altri concerti, non è grandissima). Prevedo una forte affluenza.
Alle 20.30 di mercoledì entriamo nella chiesa: siamo i primi! Ci sediamo in ottima posizione e cominciamo a leggere il libretto dell’opera; inganniamo l’attesa osservando i movimenti di preparazione dell’orchestra e dei solisti. Sono in tutto 21, 13 orchestrali (4 violini, 1 viola, 2 violoncelli, 2 flauti, 2 oboi, organo e liuto) e 8 voci (4 solisti, soprano, alto, tenore, basso, e 4 ripieni, con le stesse voci dei solisti, che interpretano personaggi secondari e rafforzano i solisti nei cori e nelle corali). Il complesso, la Petit bande, è un misto tedesco-fiammingo con un buon curriculum. Verso le 21 diamo un’occhiata alle nostre spalle e riscontriamo, con qualche imbarazzo, che ben poca gente è entrata dopo di noi. Non ho il coraggio di contare i presenti, nel timore di scoprire che le persone che assisteranno siano meno dei suonatori e cantanti. Davanti a noi due file di banchi riservati alle “autorità” vuoti per tre quarti.


La Petit Bande (solo orchestra)

Si fanno passare le 21 per un abbondante quarto d’ora accademico nella speranza di vedere crescere gli spettatori, ma invano. Così, con aria abbastanza desolata, il padre barnabita dà il benvenuto ai presenti, seguito da un saluto del presidente del consorzio, Petraroja (anche lui non nascondeva il disappunto), che ha presentato l’intero programma sottolineando l’utilizzo della Villa Reale (per i concerti seguenti). Per fortuna ci ha pensato la Petit Bande a sciogliere malinconia ed imbarazzo interpretando la Passione con grande professionalità e qualità sia da parte dei musicisti che degli interpreti vocali. La struttura dell’opera, peraltro, mette in risalto, di volta in volta, il complesso ed i singoli, strumenti e voci. Alla fine applausi convinti.
Resta da dire: perché così pochi? Disinteresse per l’opera? Bach un autore ostico al grande pubblico? La partita dell’Inter in concomitanza? Non penso. Il giorno dopo un pienone ha assistito all’Apokàlypsis in Duomo (e non penso fosse musica più “facile). Appassionati di calcio e di Bach generalmente non coincidono. E allora, problemi di comunicazione? Probabilmente si. Io l’ho saputo nel modo descritto ed ho “passato parola”. Non ho visto manifesti in giro né se ne dava notizia nelle news locali che periodicamente mi arrivano per posta elettronica. Non so chi fosse il responsabile della comunicazione, ma mi sembra che l’esordio del consorzio non sia stato dei migliori!

giovedì 7 aprile 2011

Prose militari di Garibaldi

di Dario


Ho rimesso casualmente le mani su un libretto in 32°, rilegato in similpelle di circa 200 pagine, dal titolo "GARIBALDI – Prose militari" con una interessante prefazione di un certo A.C., edito dall’Istituto Editoriale Italiano agli inizi del secolo scorso. Il contenuto è illuminante per inquadrare la figura del Generale anche sotto l’aspetto dei rapporti intercorsi con gli altri protagonisti delle battaglie del Risorgimento italiano. È una prosa a volte semplice e stringata e a volte declamatoria, non scevra di qualche errore di grammatica e riguarda un arco temporale che inizia dai fasti di Montevideo (1846) per arrivare alla guerra franco - prussiana (1870). Nel caso che, oltre a quella del sottoscritto, il contenuto del libro possa soddisfare la curiosità di qualcun altro, riporto alcuni stralci di tali scritti.

Il primo scritto è un messaggio alla Legione Italiana dopo la battaglia di S.Antonio di Salto presso Montevideo nella guerra di liberazione dell'Uruguay: "Salto. 10 febbraio 1846."Fratelli, Ieri l'altro, sui campi di Sant'Antonio, ad una lega e mezzo dalla città, abbiamo sostenuto il più terribile ed il più glorioso dei nostri combattimenti. Le quattro compagnie della nostra Legione ed una ventina uomini di cavalleria, rifugiati sotto la nostra protezione, non solo si difesero contro mille e duecento uomini di Servando Gomes, ma hanno interamente distrutta la fanteria nemica che li aveva assaliti in un numero di trecento uomini. II fuoco, cominciato a mezzogiorno, finì alla mezzanotte. Né il numero dei nemici, né le ripetute cariche, né le imponenti masse di cavalleria, né gli attacchi dei fucilieri a piedi, hanno potuto sgomentarci; sebbene non avessimo altro rifugio all'infuori di un hangar in rovina, sostenuto da quattro piloni, i legionari hanno costantemente respinti gli assalti accaniti del nemico: tutti gli ufficiali si sono fatti soldati in quella giornata. Anzani, che era rimasto al Salto ed al quale il nemico aveva imposto l'ordine di arrendersi, rispose colla miccia in una mano, il piede sulla santa Barbara della batteria, sebbene il nemico l'avesse assicurato che eravamo tutti o morti o prigionieri. Noi abbiamo trenta morti e cinquanta feriti: tutti gli ufficiali furono colpiti, e meno Scarrone, Saccarello il maggiore e Traversi, tutti leggermente. Oggi io non darei il mio nome di legionario italiano per un mondo d'oro. A mezzanotte cominciammo a ritirarci nella direzione del Salto; eravamo poco più di cento legionari sani e salvi. Quelli che erano feriti leggermente camminavano alla testa, trattenendo il nemico quando tentava molestarci da vicino.Oh! è un combattimento che merita d'essere inciso in bronzo. Una voce di maledizione sì alzerà sul capo dello storico di questa guerra se non mette questo combattimento primo tra i primi ed il più onorevole. Addio: vi scriverò più a lungo un'altra volta. Vostro GIUSEPPE GARIBALDI."



Ecco l'appello che Garibaldi rivolge ai giovani dopo l’infausta conclusione della battaglia di Custoza nella prima guerra di indipendenza: "ALLA GIOVENTÙ La guerra ingrossa: i pericoli aumentano. La patria ha bisogno di voi. Chi vi indirizza queste parole ha combattuto per onorare, come meglio poteva, il nome italiano in lidi lontani; è accorso, con un pugno di valenti compagni, da Montevideo per aiutare anch’egli la vittoria patria e morire su terra italiana. Egli ha fede in voi: volete, o giovani, averla in lui? Accorrete: concentratevi intorno a me; l’Italia ha bisogno di 10, di 20 mila volontari; raccoglietevi da tutte parti in quanti voi siete: e all’Alpi! Mostriamo all’Italia, all’Europa, che vogliamo vincere, e vinceremo. G. Garibaldi"

Fra gli scritti di argomento non solo militare è notevole una lettera inviata alla moglie durante la Repubblica Romana nella quale, alle passionali espressioni per le vicende guerresche, si aggiungono seppur sbrigativamente teneri sentimenti per Anita e la sua famiglia: "Roma, 21 giugno 1849. Lo so che sei stata e sei forse ancora ammalata: voglio veder dunque la tua firma e quella di mia madre per tranquillizzarmi. I Galli-frati del cardinale Oudinot si contentano di darci delle cannonate e noi quasi per perenne consuetudine non ne facciamo caso. Qui le donne e i ragazzi corrono dietro alle palle e alle bombe gareggiandone il possesso. Noi combattiamo sul Gianicolo e questo popolo è degno della passata grandezza. Qui si vive, si muore e si sopportano le amputazioni al grido di viva la Repubblica. – Un’ora della nostra vita in Roma vale un secolo di vita. Felice mia madre di avermi partorito in un’epoca così bella per l’Italia. Questa notte 30 dei nostri, sorpresi in una casetta fuori dalle mura da 150 Gallo-frati, se l’hanno fatta a baionettate; hanno ammazzato il capitano, 3 soldati, 4 prigionieri del nemico ed un mucchio di feriti. Noi un sergente morto ed un milite ferito. I nostri appartenevano al reggimento Unione. Procura di sanare, baciami mamma, i bimbi. Menotti mi ha beneficato di una seconda lettera, gliene sono grato. Amami molto. Tuo G: Garibaldi."



Per finire, una lettera al triumviro Giuseppe Mazzini per esortarlo ad agire al fine di aumentare l'organico dell’esercito di volontari per il rafforzamento della Repubblica Romana: "Porta San Pancrazio, 14 giugno 1849. Dio ci favorisce visibilmente, noi siamo più forti di ieri; abbiamo profittato della notte per risarcire i danni ed ora ci protegge la nebbia per la continuazione dei nostri lavori. Date una scossa a questa macchina: aumentate l’esercito, non trepidate davanti a nessuna considerazione, mettetemi in istato di potere, fra alcuni giorni, uscire in campagna con alcune migliaia di uomini, noi daremo la sveglia alle provincie d’Italia, ma bisognai costo provare che possiamo più che difendere Roma. Il morale dei nostri militi è stupendo; la guerra, le tempeste di palle, bombe, ecc. sono per loro un giuoco. Fate, per Dio! Vostro G. Garibaldi"

venerdì 25 marzo 2011

Requiem per tre faggi

di alberto


 La domanda è: quanto è lecito dispiacersi per la morte di un albero? Tanto più se gli alberi sono tre.
Avete presente il pratone della Villa Reale, quello dove in giugno fanno i fuochi artificiali? Se guardate dal salone grande della Villa, di fronte vi trovate due belle querce, un po' segnate dagli anni, ma che fanno sempre la loro figura. Poi, volgendosi appena a sinistra, il cannocchiale grande: oggi inquadra una palazzina che, grazie a google maps, senza nemmeno alzare il sedere dalla poltrona, si scopre trattarsi della sede di una ditta di ricambi per carrozzerie al civico 168 di via Lecco. In attesa che crescano gli alberelli che dovrebbero chiudere lo sfondo; io ci avrei piantato anche qualche pioppo a crescita molto rapida, salvo toglierli una volta cresciuti gli alberi più lenti. Più a sinistra ancora si vede un grande faggio pendulo, anzi, a guardar bene, sono una decina di faggi penduli: tutti insieme simulano la chioma che aveva l'unico maestoso albero dello stesso tipo che esisteva ai tempi miei, e sotto il quale si poteva giocare per pomeriggi interi.
All'estrema sinistra del prato c'era uno straordinario gruppo di tre faggi rossi, piantati un po' troppo vicini tra loro. Crescendo fino a diventare giganteschi esemplari adulti, avevano dato luogo ad una chioma unica, avendo ognuno rinunciato a sviluppare rami nella direzione degli altri due. Perché ne parlo al passato pur essendo ancora apparentemente al loro posto? Perché, ahimè, uno dei tre si è reso defunto, una specie di infarto. Me ne sono accorto lo scorso autunno, quando le foglie, invece di appassire e cascare una alla volta come sempre, si sono come contratte, rimpicciolite, e seccate tutte insieme. E anche gli altri due stanno assai poco bene. Qualche giorno fa, passeggiando come il solito da quelle parti, ci ho trovato un giovane agronomo, che non solo ha confermato il mio referto autoptico, ma mi ha informato sul pessimo stato di salute dei due alberi superstiti: mi ha mostrato il tracciato di una specie di elettrocardiogramma, non lo sapevo, ma si eseguono prove penetrometriche come quelle per verificare la portanza dei terreni: in un albero sano il tracciato è una spezzata in una zona intermedia della strisciolina di carta; in un albero malato la spezzata è tutta nella parte inferiore, verso lo zero: l'ago cioè non incontra resistenza alcuna alla penetrazione. Gli ho detto che per me era un grande dispiacere, come la scomparsa di una persona cara. Mi ha risposto dicendomi di non bestemmiare, che gli alberi non sono persone e che la pietà bisogna riservarla agli umani. Sul momento mi sembrava mi avesse convinto, ma ripensandoci non sono più tanto sicuro. In forme diverse ci si affeziona moltissimo agli animali, perché allora non anche alle piante?
per le foto ringrazio la mia sorellina Dida Paggi

venerdì 18 marzo 2011

Lode a Vedano (in Musica)

di giorgio casera

Da sempre sono attento ai programmi culturali organizzati dall’amministrazione comunale e da circoli culturali di Vedano, sia per la vicinanza, e quindi la comodità di partecipazione, sia per l’obiettivo interesse che suscitano. Per quanto Vedano sia un comune molto piccolo, riesce ad offrire, di volta in volta, del buon teatro, qualche interessante proiezione cinematografica, e soprattutto della buona musica: non soltanto perché inserita in programmi “intercomunali” come Brianza Classica o Brianza Jazz, ma anche perché offre tutti gli anni un suo autonomo programma di concerti di classica.
Caratteristica principale di questi programmi è la scelta di solisti o complessi giovani, all’inizio della carriera. Probabilmente è anche una questione di costi, ma poiché si tratta di artisti molto promettenti la qualità non ne risente. Questi giovani poi, freschi di studio al Conservatorio, hanno ben presenti la musica delle origini e nello stesso tempo sono molto attenti alle tendenze attuali.


Spirabilia Quintet

Così può capitare di ascoltare brani di compositori minori del Barocco così come le “contaminazioni” tra musica “colta” e le espressioni più “popolari” del ‘900, come jazz, tango e musica afro-caraibica. Sono stati proprio due complessi, esibitisi negli ultimi due concerti, ad esprimere queste interessanti contaminazioni. Il primo, lo Spirabilia Quintet, un complesso di fiati (flauto, oboe, clarinetto, fagotto e corno inglese), ha eseguito brani di Valerie Coleman (Afro-Cuban Concerto) e Paquito de Rivera (Aires Tropicales) (i titoli danno già un’idea dell’area musicale), due compositori viventi, l’una americana e l’altro cubano, che scrivono musica classica carica dei loro riferimenti culturali. Il “portavoce” del quintetto nella presentazione ha affermato che il loro obiettivo è quello di “confrontarsi con opere in particolare del Novecento e dell’Ottocento senza pregiudizi di stili, carattere e provenienza, guidati da un unico e puro criterio estetico”, miele per le orecchie degli ascoltatori. In linea con quanto dichiarato hanno anche eseguito la Suite dal Porgy and Bess di Gershwin, risultata molto originale e piacevole suonata da un quintetto di fiati.


Trio Ebano

Il secondo complesso, il Trio Ebano (pianoforte, violoncello e clarinetto), si presenta con le stesse credenziali: preparazione classica e ricerca dei lineamenti “etnici” nella musica del nostro tempo. Qui gli autori sono D. Schnyder (Blues for Schubert e A Friday night in August), svizzero presto trapiantato negli Usa, e ancora Paquito de Rivera (Danzon e Afro). Bravi i suonatori e godibilissimi i brani. Poi, quasi a scusarsi di aver interpretato degli autori “difficili”, hanno infilato una serie di esecuzioni basate del tango di Piazzolla (Le quattro stagioni, Oblivion, Libertango) che hanno entusiasmato il numeroso (bisogna dirlo!) pubblico presente. Il bis di prammatica è stata la classica Danza ungherese n. 2 di Brahms che ha vieppiù infiammato la platea (ma non ce n’era bisogno!).
E allora, peccato per gli assenti, e viva Vedano!

lunedì 7 marzo 2011

Salvatore Carrubba - L'Unità d'Italia capolavoro politico di Camillo Benso di Cavour

Gauss
Sala piena al Binario 7 per l’incontro di giovedì scorso con Salvatore Carrubba, invitato da Novaluna per ricordare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Se ne è compiaciuto l’assessore Alfonso Di Lio nel suo indirizzo di saluto, lieto di constatare come dall’intesa collaborativa fra le associazioni culturali monzesi da lui fortemente incoraggiata sia nato un programma di eventi celebrativi che riscuotono l’interesse e la partecipazione della cittadinanza.
Salvatore Carrubba è uno studioso di economia e di politica, un intellettuale che non si sottrae all’assunzione di importanti responsabilità amministrative, gestionali, politiche. E’ stato fra l’altro Direttore de Il Sole-24 Ore e Assessore alla Cultura del Comune di Milano. Attualmente è Presidente dell’Accademia di Brera.
L’eloquio di Carrubba è chiaro ed elegante, privo di enfasi retorica. Inizia osservando che oggi l’unificazione degli Stati Italiani, che per secoli è stata evocata come un’utopia e ha dato luogo alla creazione di uno dei pochi Stati liberali e democratici del tempo, viene sottoposta ad un processo di revisione critica, da alcuni anche di svilimento e di dileggio. Il Risorgimento, come la Rivoluzione francese, come i conflitti nazionali, religiosi e dinastici in Gran Bretagna, come tutti i passaggi cruciali della storia dei popoli non è stato esente da fatti dolorosi e delittuosi, che tuttavia non impediscono di riconoscerlo e onorarlo come la vicenda fondante dell’Italia moderna. Non va dimenticato che, in alternativa al Regno unitario di Vittorio Emanuele II, il destino politico dei territori e delle popolazioni italiane sarebbe stato, nel migliore dei casi, la confluenza in una federazione di staterelli sotto l’egida del Papato, cioè di una delle monarchie più autoritarie e reazionarie, nel peggiore di ritrovarsi propaggini periferiche delle potenze europee, il Piemonte un satellite della Francia, la Sicilia e il Sud una sorta di grande Gibilterra al servizio dell’Inghilterra, il Lombardo-Veneto una provincia austro-tedesca.
Carrubba, liberale per formazione e per convinzione, considera che il vero artefice di quell’evento epocale, da molti definito un “capolavoro”, che fu l’unificazione dell’Italia in un Regno di stampo moderno, liberale e democratico, sia stato Camillo Benso di Cavour, per la cui figura coltiva ammirazione di politico e interesse di studioso.
Di famiglia ricca e aristocratica, il giovane Cavour è una “testa calda”, animato da propositi così radicalmente riformisti da farlo pericolosamente avvicinare ai movimenti rivoluzionari. Lunghi e ripetuti viaggi in Francia e in Inghilterra provocano in lui un profondo cambiamento che lo porta ad aborrire la violenza rivoluzionaria e a farsi paladino di un liberalismo conservatore in politica, progressista e riformatore in economia, cui rimarrà fedele per tutta la vita. Una virata politica senza alcuna venatura di cinismo opportunistico, sostenuta invece da un solido sistema di valori, da una visione del mondo ispirata ad ideali di libertà. Carrubba ricorda in proposito che Gramsci riconosce in Cavour un conservatore molto più autentico e coerente di Giolitti.
Prima di entrare in politica (allora non si “scendeva” in politica) Cavour si afferma come importante e coraggioso imprenditore. Con robusti investimenti in macchine agricole e moderni metodi di concimazione incrementa la produzione delle sue tenute, fa fortuna con il commercio delle derrate alimentari, partecipa alla costituzione della Società dei molini di Collegno, fonda la Banca di Torino.
Trentasettenne, viene eletto alla Camera dei deputati del Regno di Sardegna e parte da lì la sua straordinaria vicenda politica che si sviluppa in poco più di un decennio, fino al 1861 quando muore da Presidente del Consiglio del Regno d’Italia.
Cavour si accredita come il campione del liberalismo moderato, favorevole alla promulgazione dello Statuto, fautore della liberalizzazione degli scambi, abolitore dei dazi, promotore dell’incremento delle infrastrutture, principalmente delle ferrovie, avversario del fronte cattolico reazionario. Attivissimo, intelligente e volitivo, insieme idealista e diplomatico, molto saldo anche contro il Re che non vuole inimicarsi il Papa, si mette a capo della maggioranza anticlericale, e ottiene l’abolizione dei privilegi ecclesiastici. Il suo celebre motto “Libera Chiesa in libero Stato” esprime il primato della libertà di coscienza e condanna la sovrapposizione dei poteri civile e religioso. Sempre fedele a se stesso, si dichiara assertore della libertà di stampa nella convinzione che ogni tipo di censura produce pessimi effetti.
In rapida e avvincente successione Carrubba percorre le tappe, ora esaltanti ora tormentate, della vita politica di Cavour. Diventato Ministro dell’Agricoltura, della Marina e delle Finanze, non esita a stipulare un accordo (Connubbio) con il centrosinistra di Urbano Rattazzi per scalzare il governo reazionario di Massimo D’Azeglio. Costretto a dimettersi, nel 1852 parte per un viaggio di alcuni mesi a Londra e a Parigi, dove entra in rapporti di familiarità con Napoleone III, una vicinanza che si rivelerà determinante per i destini del Risorgimento italiano.
Al ritorno in Piemonte, riceve dal Re l’incarico di formare un nuovo Governo. Vincendo le resistenze di La Marmora e dello stesso Re decide di inviare un corpo di spedizione di 15000 uomini, al fianco di Francia e Gran Bretagna contro la Russia, alla Guerra di Crimea, dove i bersaglieri si distinguono nella battaglia della Cernaja. Siede con i vincitori al congresso di Parigi del 1856, dove non incassa risultati territoriali, ma ottiene di porre la “questione italiana”, la necessità di un riassetto politico che risponda alle speranze delle popolazioni.
L’intesa con Napoleone III lo porta all’accordo segreto di Plombières, con il quale patteggia la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia per la conquista del Lombardo-Veneto. Ne segue nel 1859 la II Guerra d’Indipendenza, Magenta, Solferino, San martino e l’armistizio di Villafranca, che Napoleone III conclude con Francesco Giuseppe concordando l’annessione al Regno di Sardegna della sola Lombardia. La notizia di questo accordo, stipulato a sua insaputa, scatena uno di proverbiali accessi ed eccessi d’ira di Cavour, che non risparmia la sua acrimonia nemmeno al Re e si dimette. Viene richiamato pochi mesi dopo, ottiene dalla Francia il via libera all’annessione dell’attuale Emilia Romagna e della Toscana e firma il trattato di cessione di Nizza e della Savoia.
Nei confronti di Garibaldi (come di Mazzini) nutre diffidenza e avversità , ostacola la spedizione dei Mille anche contro la volontà di Vittorio Emanuele, pronto a prendere tutto ciò che di buono poteva venire dall’impresa. Pur riconoscendo in Garibaldi un’icona risorgimentale, il progetto di unificazione dell’Italia del diplomatico sabaudo Cavour non può che scontrarsi con quello del rivoluzionario popolare Garibaldi. Di fronte al fatto compiuto Cavour aspetta però il momento propizio e pretende il plebiscito del 1960 che sancisce l’annessione immediata di Napoli e della Sicilia.
Il 17 marzo del 1861 il Parlamento italiano unitario decreta l’unificazione politica di gran parte della penisola proclamando per il Regno di Sardegna l’assunzione del nome di Regno d’Italia. Cavour muore dopo qualche mese, il 6 giugno del 1861.
L’attualità di Cavour, ci ricorda Carrubba, è quella di un politico rispettoso del Parlamento, capace di interpretare al meglio la tradizione liberal democratica e di creare uno Stato ammirato nel mondo per la modernità del suo ordinamento. E a suggello della sua relazione cita le parole dello storico Rosario Romeo: “ Il progetto politico istituzionale realizzato con lo Stato unitario fu più vicino a quello ideato da Cavour che a quello di qualunque altra forza che abbia partecipato al Risorgimento”.

Gauss

domenica 6 marzo 2011

In memoria di Primo

di alberto

Ci siamo.
Il libro in memoria di Primo Casalini è pronto.
Va in stampa i primi giorni della prossima settimana
e uscirà in tempo per il primo anniversario della sua scomparsa.
Senza false modestie ci sembra sia venuto molto bene.
Grazie al lavoro eccellente e prezioso
di Marta Viola e Susanna Canuti,
già autrici per noi della grafica de I fiori del Parco
che abbiamo pubblicato qualche anno fa,
avrà una veste molto elegante.
Come annunciato tempo fa
raccoglierà sia le Novellette degli odori che La grande bua.
Le prime riguardano una serie di racconti il cui filo conduttore è di natura olfattiva,
le seconde invece relative al tema della depressione,
che Primo ha conosciuto per un periodo della sua vita,
e che ha indagato con il consueto acume e sense of humour.

Il libretto, di centoventi pagine,
stampato in bianco e nero per esigenze economiche,
avrà un costo di 10 € a copia.
Vi avviseremo sulle modalità della presentazione.
Chi, oltre a quelli che già si sono messi in nota,
volesse prenotarne un certo numero di copie
è pregato di comunicarlo tempestivamente al nostro @ndirizzo:
info.novalunamonza@gmail.com
il nostro codice fiscale è 94575770154
il nostro conto presso la banca popolare di Sondrio,
via Galilei angolo Buonarroti ha il seguente
IBAN ::IT 36 Z056 9620 4000 0000 5983 X08