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giovedì 27 febbraio 2014

Il talento nascosto

di giorgio casera

Ci avevo già pensato ai tempi di Primo. A sentirlo parlare di arte, di cinema ( e altro ancora) o leggendo i suoi scritti (nei Bei Momenti, i post dei vari blog, alcuni raccolti da Novaluna nel libro “Novellette degli odori”, e poi, quello che considero un grande racconto. “La grande bua”) riusciva difficile pensare che nella parte più creativa della sua vita avesse fatto il rappresentante commerciale o il marketing manager (peraltro con ottimi risultati) in una grande multinazionale.
Come avrà fatto, pensavo, a discutere con i clienti di computer, di sistemi informativi, di contratti, se dentro gli rodeva un altro fuoco? Poi, però, pensavo che le necessità della vita impongono scelte drastiche, non sempre quelle auspicate. Forse che Fenoglio non commerciava in vini delle Langhe? E Joyce non faceva l’insegnate di inglese quando si trovava a Trieste? e Svevo, e tanti altri ancora? Concludevo: è stato un vero peccato, abbiamo perso uno scrittore di saggi o di romanzi, oppure un critico d’arte, ma non c’erano alternative!
Ma quello di soffocare il proprio talento o di ignorare di possederlo deve essere un fatto più diffuso di quanto si creda. Ma prima o poi viene fuori. Posso citare l’esempio di Claudio (anche lui una vita tra informatica, processi aziendali e così via): in un tempo in cui (opinione personale!) la musica si gusta seduti comodamente nella poltrona di casa o di un teatro, Claudio ha deciso di prendere (seriamente) lezioni di piano.
Non ci resta che assistere ad un suo concerto, quando deciderà di condividere i risultati di questa scelta.
Ma l’esempio più recente di talento ignorato per anni ed infine rivelato è quello di Giuseppe. La sua mostra di quadri visti domenica scorsa alla FAL di Lissone mi ha impressionato per qualità, per varietà di stile, armonia, scelta del colore etc.(non sono un critico d’arte!).
Giuseppe, nella presentazione della mostra, ha confessato di essere arrivato tardi ed in modo casuale a scoprire la sua inclinazione. Ma, visti i risultati, era già una volontà e capacità potenziale, anche se inespressa.
Dicono che un quadro piace quando tra l’immagine rappresentata e chi lo guarda si stabilisce una sintonia, anche irrazionale.
La prima conseguenza di questa sintonia è immaginare come starebbe bene su una parete di casa, in un punto dove ogni giorno, quando lo si guarda, si scoprono particolari e significati nuovi. Beh, domenica ho ripetuto l’esercizio più volte!


P.S. Le foto dei quadri di Peppo sono di Franco Isman.

giovedì 16 gennaio 2014

ricordi di famiglia: i Foà

di annalisa

Arnoldo e suo fratello Piero erano vecchi amici di Giogio e Piero Colombo, papà e zio di Alberto. Una amicizia allegra che risaliva su per li rami ai loro genitori fino dai tempi in cui erano tutti e quattro, i nonni Foà e i nonni Colombo, giovani sposi a Ferrara.
Dirce e Valentino Foà, Ilda e Alessandro Colombo erano stati vicini di casa e avevano poi mantenuto rapporti per tutta la vita, attraverso trasferimenti e vicissitudini fino a quando i Colombo sono scomparsi tragicamente nella shoah.
In casa Colombo si seguivano con interesse e gioia ma senza eccessi, le glorie di Arnoldo in teatro alla tivvù e al cinema, e i due Pieri si scrivevano e si vedevano appena era possibile. Fra Firenze e Monza la distanza non era così trascurabile come adesso.
A  Firenze infatti abitava Piero Foà, dove i genitori gestivano un negozio di ferramenta in una stradina dietro Piazza Santa Maria Novella. Era uno di quei negozi scuri come antri, pieni di cassettiere di viti e chiodi e di ogni sorta di materiali, con un odore di ferro gomma e ruggine. Somigliava un po' al Ferrario ancora in auge, per fortuna, a Monza.
Io da ragazzina, ancora lontanissima dal matrimonio e dall'emigrazione al nord, avevo l'incarico insieme ad altri giovani ebrei, di raccogliere le offerte per la comunità ebraica, presso le famiglie e i negozianti di una certa zona. Andavo anche dai Foà. La signora era gentile, vestita di nero, alla cassa, lui burbero e, nel mio ricordo, alto magro e con un camice grigio per non sporcarsi i vestiti, mi faceva un po' paura.
Piero Foà, a differenza di di Arnoldo che aveva altro da fare, è sempre stato attivo nella Comunità ebraica fiorentina, era anche amico dei miei genitori e collaborava con la mia mamma Elena in imprese benefiche e attività culturali.
In questi giorni della morte di Arnoldo Foà sono tornati alla mente mia e di Alberto questi ricordi minimi di gente buona e gentile, simile a quella descritta da Primo Levi nel suo racconto Argon del Sistema Periodico.

Le foto le ho prese da Google tranne questa, emersa inopinatamente
 rovistando nel fondo del computer: