di Nella
Tra i ricordi della mia infanzia il più magico è legato al Natale. Abitavamo allora a Intra, sul Lago Maggiore. Eravamo in tre: io, la mamma e mio fratello. C’era la guerra e il papà, recatosi in Etiopia per ‘fondare’ assieme a tanti altri ‘le basi economiche dell’Impero’ era rimasto bloccato là e poi arruolato allo scoppio delle ostilità. Ci è rimasto sei anni, prigioniero degli inglesi. Malgrado le ristrettezze economiche, il razionamento del cibo, la presenza fisica della guerra con i tedeschi nel giardino di casa che sparavano ai partigiani nascosti nelle montagne al di là del fiume, e più tardi il mitico aereo ‘Pippo’ che sorvolava il lago diretto verso Milano, la mia è stata un’infanzia felice.
Protetta e ovattata dall’amore di mia madre che in tutti quei lunghi anni non solo ci ha fatto anche da padre ma si industriava per arrotondare il nostro magro bilancio. Ricordo nei particolari la confezione dei ‘tronchetti’ che venivano poi venduti sulle bancarelle dell’Isola Bella. Si trattava di appiccicare su delle sezioni di tronco delle cartoline con vedute del lago e poi mimetizzare le giunture con alberi, cespugli e fiori realizzati con un impasto di diversi colori fatto di acqua e caolino. Era il nostro pongo ante-litteram e io e mio fratello ci divertivamo un sacco ad aiutare la mamma che , probabilmente, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Una roba terribilmente kitsch che a me però sembrava bellissima e che comunque andava a ruba. Per loro ho ritirato fuori dagli scatoloni tutti i miei tesori, ho fatto i necessari restauri e proprio ieri ho ricostruito con un pò di magone il mitico presepe, ripensando a mia madre che nella sua lettera di commiato si era raccomandata che parlassi di lei ai figli dei miei figli. Ho incominciato a mantenere la promessa perché Tito e Siro capiscano seppur così piccini che l’amore da cui sono circondati viene da lontano, che il filo non si è interrotto, che gli affetti veri non muoiono mai.
Ma il capolavoro della mamma è stato il presepe. Ci aveva lavorato di nascosto un’intera estate realizzando le casette con le scatole delle scarpe, le finestre intagliate, le persiane colorate, i vetri di carta trasparente, i balconcini fatti con gli stuzzicadenti, i tetti con le cortecce del bosco. E poi il laghetto, il mulino a vento, il pozzo con carrucola e cordicella. Infine la capanna, come quella disegnata dai bambini, con tanto di mangiatoia e fieno vero. Questo presepe mi ha accompagnato per un’intera vita. E’ stato il presepe dei miei due figli ricreando ogni volta il mondo incantato della mia infanzia, la magia dell’attesa, il ricordo struggente di quando la mamma lo allestiva andandosi a procurare il muschio fresco e profumato delle nostre montagne.
Allora i regali li portava il Bambin Gesù, che infatti veniva rigorosamente messo nella culla solo il mattino di Natale. Un gesto simbolico al quale non ho mai rinunciato. Una tradizione che si è interrotta qualche anno fa quando i miei due figli sono usciti di casa con i rispettivi compagni. Eravamo tutti troppo grandi, troppo disincantati per far rivivere il presepe che diventa magico solo attraverso gli occhi dell’infanzia. Ma quest’anno la favola ricomincia: questo Natale infatti ci sono i miei due primi nipotini, Tito e Siro, di un anno appena.
Questo blog era fermo da qualche anno.
Vorremmo ridargli vita dandogli una funzione
un po' diversa, quella di BACHECA,
dove chiunque tra i nostri soci e amici
possa postare direttamente considerazioni,
pensieri, suggestioni, filmati, propri o altrui.
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domenica 12 dicembre 2010
martedì 7 dicembre 2010
Il cavallo rosso 2
di alberto
Avevo cominciato pensando a un commento, poi mi è scappata la mano, ed ecco, in flagrante violazione delle regole che ci siamo dati, un contro-post.
Come da formale promessa, mi sono messo a leggere il libro. Non l'ho comprato: in una casa un po' troppo su misura come la mia, per ogni libro che entra occorre scartarne uno in dotazione.
L'ho preso in prestito alla civica biblioteca, e c'è voluto qualche tempo: hanno tentato di rifilarmi il solo secondo volume; dopo qualche altro giorno mi hanno consegnato l'intero malloppo.
forse ho cominciato a leggerlo un po' prevenuto, per le considerazioni di Umberto e quelle di Dario, fatto sta che a quindici giorni dall'inizio mi sono trascinato fino a pagina 200 sulle 1200 totali e ho deciso che tante bastano: lo restituirò senza averlo finito. una libertà che mi concedo in questa stagione della vita, dopo aver compiuto i settant'anni.
Mi sono chiesto se ad irritarmi fosse la paolottitudine, ma l'ho escluso risolutamente, grazie al fatto che conosco e stimo una certo numero di paolotti e mi sembrerebbe leggermente razzista farne loro una colpa.
Mentre ci rimuginavo sopra, mi tornava in mente con insistenza la prima occupazione della facoltà di architettura, una anticipazione del '68 che sarebbe arrivato cinque anni più tardi. Il casus belli fu la sede milanese degli uffici della Snia Viscosa.
Si narra che il presidente del gruppo, Franco Marinotti, avesse affidato l'incarico al nostro professore di composizione architettonica, dandogli la seguente, stringente, indicazione progettuale: mi... me piasi Paladio. La risposta fu un edificio con colonne ioniche, doriche e corinzie che divenne il parafulmine dei nostri ardori e delle nostre purezze moderniste... sembra incredibile, è passato quasi mezzo secolo.
Avevo cominciato pensando a un commento, poi mi è scappata la mano, ed ecco, in flagrante violazione delle regole che ci siamo dati, un contro-post.
Come da formale promessa, mi sono messo a leggere il libro. Non l'ho comprato: in una casa un po' troppo su misura come la mia, per ogni libro che entra occorre scartarne uno in dotazione.
L'ho preso in prestito alla civica biblioteca, e c'è voluto qualche tempo: hanno tentato di rifilarmi il solo secondo volume; dopo qualche altro giorno mi hanno consegnato l'intero malloppo.
forse ho cominciato a leggerlo un po' prevenuto, per le considerazioni di Umberto e quelle di Dario, fatto sta che a quindici giorni dall'inizio mi sono trascinato fino a pagina 200 sulle 1200 totali e ho deciso che tante bastano: lo restituirò senza averlo finito. una libertà che mi concedo in questa stagione della vita, dopo aver compiuto i settant'anni.
Mi sono chiesto se ad irritarmi fosse la paolottitudine, ma l'ho escluso risolutamente, grazie al fatto che conosco e stimo una certo numero di paolotti e mi sembrerebbe leggermente razzista farne loro una colpa.
Mentre ci rimuginavo sopra, mi tornava in mente con insistenza la prima occupazione della facoltà di architettura, una anticipazione del '68 che sarebbe arrivato cinque anni più tardi. Il casus belli fu la sede milanese degli uffici della Snia Viscosa.
Si narra che il presidente del gruppo, Franco Marinotti, avesse affidato l'incarico al nostro professore di composizione architettonica, dandogli la seguente, stringente, indicazione progettuale: mi... me piasi Paladio. La risposta fu un edificio con colonne ioniche, doriche e corinzie che divenne il parafulmine dei nostri ardori e delle nostre purezze moderniste... sembra incredibile, è passato quasi mezzo secolo.
Ecco, sono giunto alla conclusione che quello che non sopporto non è il contenuto, ma la forma reazionaria! Mi sembra incredibile che un uomo del nostro tempo scelga di esprimersi con un linguaggio in stile, come uno di quei mobili chippendale che si facevano in brianza cinquant'anni fa, come se fossero passati invano Joyce, Faulkner, Dos Passos... E' ben vero che uno può scegliere di esprimersi come gli pare, ma c'è anche la legittima difesa.
????
Diamogli una risposta autorevole, questa!
????
Diamogli una risposta autorevole, questa!
venerdì 26 novembre 2010
Avvolta dalla luna
A voi tutti un racconto che parla della città in cui viviamo, con un intreccio di microstorie realmente accadute e ovviamente ... liberamente trascritte, che spero possa allietare uno spicchio del vostro tempo. http://www.arengario.net/anto/anto34.html
un caro saluto a tutti
Umberto
un caro saluto a tutti
Umberto
sabato 23 ottobre 2010
Con Novaluna ad Alzano Lombardo
Gauss
Quanti paesi, villaggi, città abbiamo lambito o attraversato senza chiederci se meritassero una sosta, senza pensare a quel che di prezioso potessero esibire e talvolta nascondere? Molto tempo fa, quando imboccavo la Val Seriana in direzione di Clusone e della Presolana, devo essere
passato più volte per Alzano Lombardo, sempre nella più serena ignoranza che lì, proprio in quella sconosciuta località della bergamasca, c’era un tesoro da scoprire.
Lode e riconoscenza a Novaluna se, meglio tardi che mai, abbiamo potuto sapere, vedere e ammirare (l’elogio va rivolto principalmente a Giorgio Crippa e a Edoardo Marino che dell’escursione ad Alzano sono stati gli ispiratori e gli organizzatori).
Alzano Lombardo deve il suo nome ad un podere assegnato in epoca romana alla Gens Alicia. E’ un borgo di gente operosa che fin dal cinquecento, sotto il governo della Serenissima, ha conosciuto periodi di grande prosperità derivante dallo sviluppo di attività artigianali e commerciali connesse soprattutto alla lavorazione della lana, cui si aggiunsero nel settecento quella della fabbricazione della carta (le Cartiere Pigna) e nell'ottocento quella della produzione di cemento (la prima fabbrica dell’Italcementi in Italia).
E’ proprio lì, alla vecchia Italcementi, che ci siamo dati appuntamento, non al cementificio che, ormai del tutto dismesso e abbandonato, si presenta come un grigio imponente rudere industriale, ma all’edificio che lo fronteggia, originariamente destinato alla progettazione e alla costruzione del macchinario per cementifici di cui l’Italcementi era un produttore d’avanguardia. Dopo lunghe peripezie per raggiungerla (il Comune di Alzano non la degna di segnalazioni stradali, forse per non deviare il forestiero da altre illustri e meno controverse mete cittadine), abbiamo parcheggiato al piede di una struttura dall’aspetto nobile e austero, perfettamente e sapientemente restaurata.
Al suo interno, le sue più che centenarie mura ospitano l’ALT (Arte Lavoro Territorio), una mostra di circa 250 opere di proprietà di Tullio Leggeri, collezionista d’arte contemporanea e mecenate di artisti contemporanei oltre che importante imprenditore nel settore delle costruzioni e di Elena Matous Radici, la vedova di Fausto Radici, il compianto campione della valanga azzurra di sci, oltre che giovane rampollo di una dinastia industriale, amico di Leggeri e come lui collezionista d’arte d’avanguardia.
Le opere, foto, dipinti, installazioni, sculture, video, animazioni, sonorità, oggetti decontestualizzati, molti di ragguardevoli dimensioni, sono collocati in uno spazio suggestivo, marcato da poderosi pilastri reggenti ampie volte a botte, qua e là bucate da oblò-lucernari che assicurano all’ambiente una luce soffusa ed omogenea, di cui sempre dovrebbero giovarsi le pinacoteche e i musei (la tenebra perforata dai fasci di luce dei faretti si addice all’esibizione del trapezista nel circo, o del prestigiatore sul palco, non all’esposizione e alla comprensione dell’opera d’arte).
Abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di essere accompagnati nel lungo itinerario attraverso questa vasta rassegna espressiva dell’arte del nostro tempo dallo stesso conservatore dell’ALT, una guida colta e riflessiva, libera da quegli atteggiamenti declamatori cui talvolta indulgono le guide dei musei fino ad assomigliare agli imbonitori del mercato del giovedì. Ha assolto al non facile compito di introdurci con essenziali riferimenti storici e misurati commenti critici alla conoscenza di un’arte fortemente concettuale, allusiva e provocatoria, volutamente scandalosa, più scostante che accattivante, talvolta inquietante e addirittura irritante. Del resto, oggi si ritiene che sia proprio questa la missione dell’artista, spiazzare, demolire le consuetudini, violare i tabù, proporre nuove e originali visioni del mondo, suscitare perplessità e accendere controversie, ci penserà poi il tempo a separare il grano dal loglio.
La mia opera preferita? Una estroflessione di Piero Manzoni, un gioco d’ombra e di luce ottenuto con un lino pieghettato e irrigidito col caolino, un non-dipinto di pura e serena eleganza (mi pento di non averlo fotografato).
Al termine di una visita così impegnativa e coinvolgente ci aspettava, e anche ci spettava, il conforto di una pausa conviviale, che abbiamo lasciato scorrere alla Taverna San Martino, tra muri in pietra levigata del fiume Serio risalenti al ‘500, in vociante conversazione e vorace consumazione del tris di primi e della tagliata di manzo contornata dalle patate al forno, degno preludio al tripudio barocco della Basilica di San Martino, la nostra meta pomeridiana.
Vista da fuori, ha l’aspetto di una bella costruzione del ‘600, di quando le facciate delle chiese reggevano e vincevano il confronto, per imponenza e decoro, con quelle delle residenze dei principi. Tanto potevano osare le Fabbricerie ecclesiastiche perché disponevano di ingenti apporti di capitali, che nel caso della basilica di Alzano provenivano da una eredità di 70.000 scudi (equivalenti a 45 miliardi pre-euro) legata dal ricco mercante alzanese Nicolò Valle al rifacimento in versione monumentale della preesistente chiesa del ‘400.
Non si può negare che gli eredi suoi concittadini ne abbiano fatto buon uso.
E’ soprattutto all’interno che la chiesa trionfa nella sua stupefacente fastosità. Chi andasse in cerca di una dimostrazione sintetica, di un compendio delle connotazioni che definiscono lo stile barocco si soffermi davanti al pulpito settecentesco che domina al centro della navata principale (progetto di Giovan Battista Caniana, sculture di Andrea Fantoni, intarsi di Gian Giacomo Manni). Non manca nulla, e tutto è proposto ad altissimo livello di esecuzione, l’andamento sinuoso, l’orrore delle linee rette e il rifiuto delle forme geometriche, l’estro, la complessità della composizione, la bizzarria, il capriccio, la drammaticità, il gioco delle apparenze, il grottesco, l’esuberanza decorativa, il culto della retorica, la teatralità, gli “effetti speciali”, come si direbbe oggi. E, sopra tutto, c’è la straordinaria maestria della fattura. Nel suo bell’accento bergamasco, la nostra simpatica guida si è scusata in anticipo del tono catechistico con cui avrebbe illustrato questo capolavoro: “Non posso fare altrimenti, il Barocco è arte che parla e che educa, ogni particolare è un brano di un racconto che ricorda le scritture e ammonisce a seguirne l’insegnamento, una narrazione comprensibile e ammaliante sia per i dotti che per gli analfabeti”.
Al centro dell’universo non c’è più l’uomo della Rinascenza, gli uomini della Controriforma sono i quattro telamoni del pulpito (Le quattro età dell'uomo), nobili figure relegate a un ruolo servile. Invece di stare sul piedistallo, sono le loro schiene piegate e le loro membra contratte a far da piedistallo alla coppa della Sapienza che la predicazione somministra ai fedeli. La gloria del protagonista spetta alla sommità del pulpito, dove la parola divina sembra esplodere fuori dal capocielo in uno sfolgorio di azzurro e oro. Il nesso fra Barocco e Controriforma viene oggi ritenuto meno stretto che in passato, ma non c'è dubbio che questo pulpito è un meraviglioso strumento di persuasione ideologica al servizio di quella “rivoluzione culturale” che fu la Controriforma cattolica.
La planimetria della basilica presenta otto cappelle laterali dedicate a uno o più santi di diffusa venerazione popolare. La nostra guida ha opportunamente fermato l'attenzione sulla più importante e significativa, la Cappella del Rosario arricchita da uno splendido paliotto d’altare con la Natività della Vergine, opera di Andrea Fantoni.
Alle pareti un ciclo pittorico a soggetto biblico composto da tele di enormi dimensioni (la cappella è alta ventisei metri) fra le quali un olimpico Giacobbe che incontra Lia e Rachele di Andrea Appiani e una commovente Agar del Piccio.
Le meraviglie non sono finite, anzi. La Basilica di San Martino è impreziosita da tre annesse sacrestie, anch’esse secentesche, costruite come locali rispettivamente di preparazione del clero alle funzioni ecclesiali, di preghiera e di riunione. Vi sono raccolti i più stupendi capolavori di ebanisteria che sia dato vedere, dovuti alla maestria di due famiglie di intarsiatori e di intagliatori della bergamasca, i Fantoni di Rovetta e i Caniana di Romano Lombardo.
La prima sacrestia è riccamente arredata con mobili in legno di noce che imitano la facciata di una Chiesa. Sui contrapposti armadi centrali, nelle cui inaspettate profondità sono custoditi i paramenti e gli arredi del culto, sono collocate le statue lignee con San Martino e San Pietro, mentre su quelli laterali sono rappresentati i Dottori della Chiesa Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Gregorio Magno e San Gerolamo. Bellissima e inquietante la scultura barocca della Morte trionfatrice sui poteri del mondo (Papato, Impero e Sinagoga).
Sopra la porta d’ingresso è posto un busto raffigurante Nicolò Valle, che come benefattore si deve contentare dell’onore della sacrestia, quello della chiesa essendo concesso solo ai santi.
La seconda sacrestia, cui erano ammessi esclusivamente i sacerdoti per celebrare i riti preparatori alla liturgia, è di stupefacente complessità decorativa. I banconi appoggiati alle sue quattro pareti sono sormontati da un Martirium elogium, una elaboratissima cimasa lignea con 32 gruppi scultorei a tutto tondo raffiguranti i santi martiri della fede. Sono miniature di personaggi che raccontano con straordinaria potenza espressiva la leggenda per la quale sono ricordati e venerati.
C’è San Bartolomeo che ostenta la sua pelle, San Giovanni Decollato che tiene in mano la sua stessa testa, San Pietro da Verona con la roncola conficcata in cranio, San Giovanni da Nepomuk (o Nepomuceno, ad Alzano familiarmente detto “Né più né meno”) che viene scaraventato giù da un ponte nella Moldava, e così via.
La terza sacrestia, sede delle adunanze della Collegiata sacerdotale locale, è arredata da un coro di stalli lignei ad opera dei Caniana. Qui le decorazioni sono di intonazione laica, soggetti naturalistici, motivi vegetali intrecciati, frutta e verzure, giochi di fanciulli, paesaggi idilliaci.
Ai lati della porta d’ingresso due stanzini foderati di pregiata boiserie e chiusi da pesanti porte di noce erano adibiti a confessionale. La perfetta insonorizzazione consentiva ai confessori di parlare ad alta voce senza essere uditi all'esterno e poter così assolvere dai peccati anche i penitenti di debole udito.
Gauss
N.B. Cliccare sulle foto per ingrandirle.
Quanti paesi, villaggi, città abbiamo lambito o attraversato senza chiederci se meritassero una sosta, senza pensare a quel che di prezioso potessero esibire e talvolta nascondere? Molto tempo fa, quando imboccavo la Val Seriana in direzione di Clusone e della Presolana, devo essere
passato più volte per Alzano Lombardo, sempre nella più serena ignoranza che lì, proprio in quella sconosciuta località della bergamasca, c’era un tesoro da scoprire.
Lode e riconoscenza a Novaluna se, meglio tardi che mai, abbiamo potuto sapere, vedere e ammirare (l’elogio va rivolto principalmente a Giorgio Crippa e a Edoardo Marino che dell’escursione ad Alzano sono stati gli ispiratori e gli organizzatori).
Alzano Lombardo deve il suo nome ad un podere assegnato in epoca romana alla Gens Alicia. E’ un borgo di gente operosa che fin dal cinquecento, sotto il governo della Serenissima, ha conosciuto periodi di grande prosperità derivante dallo sviluppo di attività artigianali e commerciali connesse soprattutto alla lavorazione della lana, cui si aggiunsero nel settecento quella della fabbricazione della carta (le Cartiere Pigna) e nell'ottocento quella della produzione di cemento (la prima fabbrica dell’Italcementi in Italia).
E’ proprio lì, alla vecchia Italcementi, che ci siamo dati appuntamento, non al cementificio che, ormai del tutto dismesso e abbandonato, si presenta come un grigio imponente rudere industriale, ma all’edificio che lo fronteggia, originariamente destinato alla progettazione e alla costruzione del macchinario per cementifici di cui l’Italcementi era un produttore d’avanguardia. Dopo lunghe peripezie per raggiungerla (il Comune di Alzano non la degna di segnalazioni stradali, forse per non deviare il forestiero da altre illustri e meno controverse mete cittadine), abbiamo parcheggiato al piede di una struttura dall’aspetto nobile e austero, perfettamente e sapientemente restaurata.
Al suo interno, le sue più che centenarie mura ospitano l’ALT (Arte Lavoro Territorio), una mostra di circa 250 opere di proprietà di Tullio Leggeri, collezionista d’arte contemporanea e mecenate di artisti contemporanei oltre che importante imprenditore nel settore delle costruzioni e di Elena Matous Radici, la vedova di Fausto Radici, il compianto campione della valanga azzurra di sci, oltre che giovane rampollo di una dinastia industriale, amico di Leggeri e come lui collezionista d’arte d’avanguardia.
Le opere, foto, dipinti, installazioni, sculture, video, animazioni, sonorità, oggetti decontestualizzati, molti di ragguardevoli dimensioni, sono collocati in uno spazio suggestivo, marcato da poderosi pilastri reggenti ampie volte a botte, qua e là bucate da oblò-lucernari che assicurano all’ambiente una luce soffusa ed omogenea, di cui sempre dovrebbero giovarsi le pinacoteche e i musei (la tenebra perforata dai fasci di luce dei faretti si addice all’esibizione del trapezista nel circo, o del prestigiatore sul palco, non all’esposizione e alla comprensione dell’opera d’arte).
Abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di essere accompagnati nel lungo itinerario attraverso questa vasta rassegna espressiva dell’arte del nostro tempo dallo stesso conservatore dell’ALT, una guida colta e riflessiva, libera da quegli atteggiamenti declamatori cui talvolta indulgono le guide dei musei fino ad assomigliare agli imbonitori del mercato del giovedì. Ha assolto al non facile compito di introdurci con essenziali riferimenti storici e misurati commenti critici alla conoscenza di un’arte fortemente concettuale, allusiva e provocatoria, volutamente scandalosa, più scostante che accattivante, talvolta inquietante e addirittura irritante. Del resto, oggi si ritiene che sia proprio questa la missione dell’artista, spiazzare, demolire le consuetudini, violare i tabù, proporre nuove e originali visioni del mondo, suscitare perplessità e accendere controversie, ci penserà poi il tempo a separare il grano dal loglio.
La mia opera preferita? Una estroflessione di Piero Manzoni, un gioco d’ombra e di luce ottenuto con un lino pieghettato e irrigidito col caolino, un non-dipinto di pura e serena eleganza (mi pento di non averlo fotografato).
Al termine di una visita così impegnativa e coinvolgente ci aspettava, e anche ci spettava, il conforto di una pausa conviviale, che abbiamo lasciato scorrere alla Taverna San Martino, tra muri in pietra levigata del fiume Serio risalenti al ‘500, in vociante conversazione e vorace consumazione del tris di primi e della tagliata di manzo contornata dalle patate al forno, degno preludio al tripudio barocco della Basilica di San Martino, la nostra meta pomeridiana.
Vista da fuori, ha l’aspetto di una bella costruzione del ‘600, di quando le facciate delle chiese reggevano e vincevano il confronto, per imponenza e decoro, con quelle delle residenze dei principi. Tanto potevano osare le Fabbricerie ecclesiastiche perché disponevano di ingenti apporti di capitali, che nel caso della basilica di Alzano provenivano da una eredità di 70.000 scudi (equivalenti a 45 miliardi pre-euro) legata dal ricco mercante alzanese Nicolò Valle al rifacimento in versione monumentale della preesistente chiesa del ‘400.
Non si può negare che gli eredi suoi concittadini ne abbiano fatto buon uso.
E’ soprattutto all’interno che la chiesa trionfa nella sua stupefacente fastosità. Chi andasse in cerca di una dimostrazione sintetica, di un compendio delle connotazioni che definiscono lo stile barocco si soffermi davanti al pulpito settecentesco che domina al centro della navata principale (progetto di Giovan Battista Caniana, sculture di Andrea Fantoni, intarsi di Gian Giacomo Manni). Non manca nulla, e tutto è proposto ad altissimo livello di esecuzione, l’andamento sinuoso, l’orrore delle linee rette e il rifiuto delle forme geometriche, l’estro, la complessità della composizione, la bizzarria, il capriccio, la drammaticità, il gioco delle apparenze, il grottesco, l’esuberanza decorativa, il culto della retorica, la teatralità, gli “effetti speciali”, come si direbbe oggi. E, sopra tutto, c’è la straordinaria maestria della fattura. Nel suo bell’accento bergamasco, la nostra simpatica guida si è scusata in anticipo del tono catechistico con cui avrebbe illustrato questo capolavoro: “Non posso fare altrimenti, il Barocco è arte che parla e che educa, ogni particolare è un brano di un racconto che ricorda le scritture e ammonisce a seguirne l’insegnamento, una narrazione comprensibile e ammaliante sia per i dotti che per gli analfabeti”.
Al centro dell’universo non c’è più l’uomo della Rinascenza, gli uomini della Controriforma sono i quattro telamoni del pulpito (Le quattro età dell'uomo), nobili figure relegate a un ruolo servile. Invece di stare sul piedistallo, sono le loro schiene piegate e le loro membra contratte a far da piedistallo alla coppa della Sapienza che la predicazione somministra ai fedeli. La gloria del protagonista spetta alla sommità del pulpito, dove la parola divina sembra esplodere fuori dal capocielo in uno sfolgorio di azzurro e oro. Il nesso fra Barocco e Controriforma viene oggi ritenuto meno stretto che in passato, ma non c'è dubbio che questo pulpito è un meraviglioso strumento di persuasione ideologica al servizio di quella “rivoluzione culturale” che fu la Controriforma cattolica.
La planimetria della basilica presenta otto cappelle laterali dedicate a uno o più santi di diffusa venerazione popolare. La nostra guida ha opportunamente fermato l'attenzione sulla più importante e significativa, la Cappella del Rosario arricchita da uno splendido paliotto d’altare con la Natività della Vergine, opera di Andrea Fantoni.
Alle pareti un ciclo pittorico a soggetto biblico composto da tele di enormi dimensioni (la cappella è alta ventisei metri) fra le quali un olimpico Giacobbe che incontra Lia e Rachele di Andrea Appiani e una commovente Agar del Piccio.
Le meraviglie non sono finite, anzi. La Basilica di San Martino è impreziosita da tre annesse sacrestie, anch’esse secentesche, costruite come locali rispettivamente di preparazione del clero alle funzioni ecclesiali, di preghiera e di riunione. Vi sono raccolti i più stupendi capolavori di ebanisteria che sia dato vedere, dovuti alla maestria di due famiglie di intarsiatori e di intagliatori della bergamasca, i Fantoni di Rovetta e i Caniana di Romano Lombardo.
La prima sacrestia è riccamente arredata con mobili in legno di noce che imitano la facciata di una Chiesa. Sui contrapposti armadi centrali, nelle cui inaspettate profondità sono custoditi i paramenti e gli arredi del culto, sono collocate le statue lignee con San Martino e San Pietro, mentre su quelli laterali sono rappresentati i Dottori della Chiesa Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Gregorio Magno e San Gerolamo. Bellissima e inquietante la scultura barocca della Morte trionfatrice sui poteri del mondo (Papato, Impero e Sinagoga).
Sopra la porta d’ingresso è posto un busto raffigurante Nicolò Valle, che come benefattore si deve contentare dell’onore della sacrestia, quello della chiesa essendo concesso solo ai santi.
La seconda sacrestia, cui erano ammessi esclusivamente i sacerdoti per celebrare i riti preparatori alla liturgia, è di stupefacente complessità decorativa. I banconi appoggiati alle sue quattro pareti sono sormontati da un Martirium elogium, una elaboratissima cimasa lignea con 32 gruppi scultorei a tutto tondo raffiguranti i santi martiri della fede. Sono miniature di personaggi che raccontano con straordinaria potenza espressiva la leggenda per la quale sono ricordati e venerati.
C’è San Bartolomeo che ostenta la sua pelle, San Giovanni Decollato che tiene in mano la sua stessa testa, San Pietro da Verona con la roncola conficcata in cranio, San Giovanni da Nepomuk (o Nepomuceno, ad Alzano familiarmente detto “Né più né meno”) che viene scaraventato giù da un ponte nella Moldava, e così via.
La terza sacrestia, sede delle adunanze della Collegiata sacerdotale locale, è arredata da un coro di stalli lignei ad opera dei Caniana. Qui le decorazioni sono di intonazione laica, soggetti naturalistici, motivi vegetali intrecciati, frutta e verzure, giochi di fanciulli, paesaggi idilliaci.
Ai lati della porta d’ingresso due stanzini foderati di pregiata boiserie e chiusi da pesanti porte di noce erano adibiti a confessionale. La perfetta insonorizzazione consentiva ai confessori di parlare ad alta voce senza essere uditi all'esterno e poter così assolvere dai peccati anche i penitenti di debole udito.
Gauss
N.B. Cliccare sulle foto per ingrandirle.
domenica 17 ottobre 2010
I Monti e Tognetti di una via di Monza
di Dario Chiarino
La via Monti e Tognetti con il suo ex casello daziario è una delle vecchie vie del quartiere di San Biagio, ma quanti monzesi sanno chi erano Monti e Tognetti?
Il 22 ottobre 1867, due barili di polvere da sparo nelle fogne della caserma Serristori, presso il Vaticano, esplodevano uccidendo ventitre zuavi francesi e quattro popolani romani.
Monti e Tognetti furono giudicati responsabili di quello che voleva essere un atto insurrezionale in una Roma in stato di guerra per la minaccia incombente di una spedizione militare di volontari guidata da Garibaldi.
Furono condannati a morte e ghigliottinati.
Qualche anno fa nacque sul Corriere della Sera una polemica su tale avvenimento
Il ben noto scrittore cattolico Vittorio Messeri giudicò - in polemica con Indro Montanelli per quanto apparso in una "stanza" sul Corsera - giuste e legittime la sentenza di condanna a morte e la conseguente decapitazione dei due attentatori, sostenendo che:
"Malgrado nessun giurista, in tutta Europa,avesse alcunché da obiettare, viste anche le leggi di guerra, Pio IX era propenso a concedere la grazia. Ne fu impedito dalla dura protesta dei francesi e dei congiunti delle innocenti vittime romane. Niente di questo sta nella dimenticata, ma a lungo popolarissima, ode di Carducci per i martiri Monti e Tognetti. Poiché questi sono i fatti, sorprende di vedere pubblicata sul Corriere una lettera ove tal Donato Mutarelli parla di Monti e Tognetti come di misere e incolpevoli vittime di un uso efferato della ghigliottina, di ragazzi di vent'anni sacrificati dalla mostruosa ragion di stato vaticana. Sembra proprio che quando si tratta del beato Pio IX, la verità sia un fastidioso accessorio, ciò che importa essendo lo schema ideologico."
"Malgrado nessun giurista, in tutta Europa,avesse alcunché da obiettare, viste anche le leggi di guerra, Pio IX era propenso a concedere la grazia. Ne fu impedito dalla dura protesta dei francesi e dei congiunti delle innocenti vittime romane. Niente di questo sta nella dimenticata, ma a lungo popolarissima, ode di Carducci per i martiri Monti e Tognetti. Poiché questi sono i fatti, sorprende di vedere pubblicata sul Corriere una lettera ove tal Donato Mutarelli parla di Monti e Tognetti come di misere e incolpevoli vittime di un uso efferato della ghigliottina, di ragazzi di vent'anni sacrificati dalla mostruosa ragion di stato vaticana. Sembra proprio che quando si tratta del beato Pio IX, la verità sia un fastidioso accessorio, ciò che importa essendo lo schema ideologico."
Questa è stata la risposta di Montanelli:
"I fatti sul piano storico sono questi, anche se mi permetto di avanzare qualche riserva sulla quiescenza dei condannati alla sentenza di morte, nota essendo e collaudata nei secoli la spicciavità con cui la giustizia e la polizia papaline strappavano ai morituri il ripudio di ciò che avevano detto o fatto.
Due obiezioni ho però da muovere al sig. Messori. La prima è il suo linguaggio arrogante e altezzoso. La seconda è la corrività con cui si sottrae alla notazione di un piccolo particolare. È verissimo infatti che qualsiasi stato di guerra, dopo un attentato dei giovanissimi Monti e Tognetti, si sarebbe comportato allo stesso modo. Ma il fatto è che quello del Papa non era un «qualsiasi stato».
Era lo Stato di una Chiesa secondo la quale la vita è un dono di Dio, che solo Dio ha il potere di concedere e di togliere. È su questo principio che si basa - e si giustifica - la grande protesta esplosa fra ieri e oggi, contro l'esecuzione del povero Rocco Bernabei. (*)
E quindi questo non mi sembra il momento più adatto per rivangare certi precedenti del potere papalino dai cui impegni temporali i cattolici italiani dovrebbero essere - come molti di loro sono - grati allo Stato di averli liberati. Si, «liberati». Chi scrive è un laico che non ha mai fatto professione di anticlericalismo. Vorremmo che la Chiesa ci aiutasse a non far rinascere questa mala pianta che per un secolo e mezzo ha avvelenato e reso monca la vita di questo povero Paese. Purtroppo alcuni segni ci inducono a dubitare che questa sia la strada ch'essa intenda battere"
Sono andato a ripescare la "dimenticata ma a lungo popolarissima" ode carducciana ricordata dal Messori e per chi volesse conoscerla ne trascrivo la prima parte (che basta e avanza...).
Torpido fra la nebbia ed increscioso/ Esce su Roma il giorno: / Fiochi i suon de la vita, un pauroso / Silenzio è d'ogn'intorno.
Novembre sta del Vatican su gli orti/ Come di piombo un velo: / Senza canti gli augei da' tronchi morti / Fuggon pe 'l morto cielo.
Fioccano d'un cader lento le fronde/ Gialle, cineree, bianche; / E sotto il fioccar tristo che le asconde/ Paion di vita stanche
Fin quelle, che d'etadi e genti sparte/ Mirâr tanta ruina/ In calma gioventú, forme de l'arte/ Argolica e latina.
Il gran prete quel dí svegliossi allegro,/ Guardò pe' vaticani / vetri dorati il cielo umido e negro, / E si fregò le mani.
Natura par che di deforme orrore / Tremi innanzi a la morte: / Ei sente de le piume anco il tepore / E dice - Ecco, io son forte.
Antecessor mio santo, anni parecchi/ Corser da la tua gesta: / A te, Piero, bastarono gli orecchi; / Io taglierò la testa.
A questa volta son con noi le squadre, / Né Gesú ci scompiglia: / Egli è in collegio al Sacro Cuore, e il padre / Curci lo tiene in briglia.
Un forte vecchio io son; l'ardor de i belli / Anni in cuor mi ritrovo: / La scure che aprí 'l cielo al Locatelli / Arrotatela a novo.
Sottil, lucida, acuta, in alto splenda/ Ella come un'idea: / Bello il patibol sia: l'oro si spenda/ Che mandò il Menabrea.
I francesi, posato il Maometto/ Del Voltèr da l'un canto, / Diano una man, per compiere il gibetto, / Al tribunal mio santo.
Si esponga il sacramento a San Niccola/ Con le indulgenze usate, / Ed in faccia a l'Italia mia figliuola / Due teste insanguinate -.
.....................................................................................................Novembre sta del Vatican su gli orti/ Come di piombo un velo: / Senza canti gli augei da' tronchi morti / Fuggon pe 'l morto cielo.
Fioccano d'un cader lento le fronde/ Gialle, cineree, bianche; / E sotto il fioccar tristo che le asconde/ Paion di vita stanche
Fin quelle, che d'etadi e genti sparte/ Mirâr tanta ruina/ In calma gioventú, forme de l'arte/ Argolica e latina.
Il gran prete quel dí svegliossi allegro,/ Guardò pe' vaticani / vetri dorati il cielo umido e negro, / E si fregò le mani.
Natura par che di deforme orrore / Tremi innanzi a la morte: / Ei sente de le piume anco il tepore / E dice - Ecco, io son forte.
Antecessor mio santo, anni parecchi/ Corser da la tua gesta: / A te, Piero, bastarono gli orecchi; / Io taglierò la testa.
A questa volta son con noi le squadre, / Né Gesú ci scompiglia: / Egli è in collegio al Sacro Cuore, e il padre / Curci lo tiene in briglia.
Un forte vecchio io son; l'ardor de i belli / Anni in cuor mi ritrovo: / La scure che aprí 'l cielo al Locatelli / Arrotatela a novo.
Sottil, lucida, acuta, in alto splenda/ Ella come un'idea: / Bello il patibol sia: l'oro si spenda/ Che mandò il Menabrea.
I francesi, posato il Maometto/ Del Voltèr da l'un canto, / Diano una man, per compiere il gibetto, / Al tribunal mio santo.
Si esponga il sacramento a San Niccola/ Con le indulgenze usate, / Ed in faccia a l'Italia mia figliuola / Due teste insanguinate -.
(*) - Rocco è stato un cittadino statunitense di origini italiane, condannato alla pene di morte per omicidio. Il suo caso ha suscitato, nei giorni della polemica Messori - Montanelli vivaci reazioni in ordine alla dubitata certezza della sua colpevolezza.
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sabato 2 ottobre 2010
Il Cavallo Rosso
di umberto de pace
Cari amici di Novaluna,
vi segnalo il link di un mio commento su il romanzo "il Cavallo Rosso" dello scrittore besanese Eugenio Corti, appena pubblicato su L'Arengario. In realtà era una lettera inviata a "il Cittadino" e non pubblicata, suppongo perchè non in linea con il loro pensiero, come normalmente capita. A me piacerebbe invece confrontarmi serenamente su un testo, ritenuto degno di un premio Nobel alla letteratura, che mi ha lasciato non poche perplessità dopo averlo letto. LETTO? Certo! Sembra quasi di dire una bestialità di fronte ai non pochi che vorrebbero affibiare un Nobel per puro spirito campanilistico o lobbistico.
Non aggiungo altro e vi invito alla lettura non solo del mio commento ma sopratutto del libro "il Cavallo Rosso" per poi confrontarci, a ragion veduta, sul testo e l'autore.
http://arengario.net/citt/citt345.html
Cari amici di Novaluna,
vi segnalo il link di un mio commento su il romanzo "il Cavallo Rosso" dello scrittore besanese Eugenio Corti, appena pubblicato su L'Arengario. In realtà era una lettera inviata a "il Cittadino" e non pubblicata, suppongo perchè non in linea con il loro pensiero, come normalmente capita. A me piacerebbe invece confrontarmi serenamente su un testo, ritenuto degno di un premio Nobel alla letteratura, che mi ha lasciato non poche perplessità dopo averlo letto. LETTO? Certo! Sembra quasi di dire una bestialità di fronte ai non pochi che vorrebbero affibiare un Nobel per puro spirito campanilistico o lobbistico.
Non aggiungo altro e vi invito alla lettura non solo del mio commento ma sopratutto del libro "il Cavallo Rosso" per poi confrontarci, a ragion veduta, sul testo e l'autore.
http://arengario.net/citt/citt345.html
lunedì 27 settembre 2010
2010: annata da incorniciare
di giorgio casera
Porcino
Le annate memorabili per il vino si definiscono annate da incorniciare!
Non si sa ancora come sarà la produzione per i vini quest’anno. Da quanto si legge le premesse sono buone, ma ora siamo nella fase forse più critica, quella della vendemmia. Vedremo, tra un mese si potranno tirare le somme.
Quello che si può già dire invece è che per i funghi è andata alla grande, in quantità e qualità.
Nel paese dove ho trascorso l'estate, nel Basso Agordino, tra ultimi giorni di agosto e primi di settembre, gli amici mi avevano raccontato di raccolte all’altezza delle migliori tradizioni. Come poi mi hanno ripetuto gli amici di Monza che frequentano Valtellina e Lecchese. Non so di altre zone (Trentino etc) ma sono sicuro che è andata bene anche là. Come dicevo, nel mio paesello c’è stata abbondanza, ma, almeno finora, selettiva.
Boletus luridus
Nella hit parade metterei naturalmente i porcini (boletus edulis, il più ricercato), le mazze di tamburo, i diffusi laricini e i porcini “mat”(boletus luridus); non sono mancati peraltro funghi di specie meno diffuse ma altamente apprezzati dai gourmet, come il coprinus comatus. Assente, almeno finora, il secondo fungo più ricercato nella zona, il gallinaccio (cantharellus cibarius), ma per questo, come per altri mancanti all’appello, c’è ancora un mese abbondante di tempo. Diamogli ancora una chance!
Coprinus comatus
Le annate memorabili per il vino si definiscono annate da incorniciare!
Non si sa ancora come sarà la produzione per i vini quest’anno. Da quanto si legge le premesse sono buone, ma ora siamo nella fase forse più critica, quella della vendemmia. Vedremo, tra un mese si potranno tirare le somme.
Quello che si può già dire invece è che per i funghi è andata alla grande, in quantità e qualità.
Nel paese dove ho trascorso l'estate, nel Basso Agordino, tra ultimi giorni di agosto e primi di settembre, gli amici mi avevano raccontato di raccolte all’altezza delle migliori tradizioni. Come poi mi hanno ripetuto gli amici di Monza che frequentano Valtellina e Lecchese. Non so di altre zone (Trentino etc) ma sono sicuro che è andata bene anche là. Come dicevo, nel mio paesello c’è stata abbondanza, ma, almeno finora, selettiva.
Nella hit parade metterei naturalmente i porcini (boletus edulis, il più ricercato), le mazze di tamburo, i diffusi laricini e i porcini “mat”(boletus luridus); non sono mancati peraltro funghi di specie meno diffuse ma altamente apprezzati dai gourmet, come il coprinus comatus. Assente, almeno finora, il secondo fungo più ricercato nella zona, il gallinaccio (cantharellus cibarius), ma per questo, come per altri mancanti all’appello, c’è ancora un mese abbondante di tempo. Diamogli ancora una chance!
martedì 6 luglio 2010
in barca
di alberto
Con Sandra, Dida e Aldo, i miei fratelli, e la nipote Paolina, oltre a qualche occasionale infiltrato, abbiamo da qualche anno l'abitudine di ritagliarci una settimana per fare un trekking da qualche parte. L'anno scorso invece abbiamo affittato una barca e ci siamo fatti un bellissimo giro per le isole pontine. quest'anno abbiamo ripetuto l'esperimento nell'arcipelago toscano.
Lo skipper, Michele Isman, oltre ad essere un amico di famiglia, è formidabile, non ha alcuna parentela con quei nazisti dell'Illinois che hanno fatto la scuola di vela a Caprera e si ritengono in dovere di rivalersi delle angherie subite sottoponendo ad analoghe sevizie i loro equipaggi. Michele al contrario è di carattere dolce e non si infuria mai, anche in presenza di una ciurma di infingardi come la nostra. Appena possibile si naviga a vela, sennò ci si rassegna al motore. Si fanno bagni magnifici dalla mattina presto fino al tramonto, dovunque ci venga la voglia. La navigazione si arricchisce di incontri emozionanti: l'anno passato abbiamo pescato uno splendido tonno e un'aguglia imperiale, questa volta una enorme lampuga...
abbiamo, naturalmente, si dice per dire: la operazione di recupero di pesci di queste dimensioni non è una attività per mollaccioni di città come noi. Peggio, succede che tifiamo per il pesce, salvo rassegnarci – e leccarci i baffi – a cose fatte. Se possibile ancora più emozionanti, l'anno scorso l'incontro con un paio di delfini, quest'anno con una intera tribù che a lungo ha giocato con noi.
non mi è riuscito di caricare il video direttamente, ma lo potete trovare qui:
http://www.facebook.com/video/video.php?v=1466313616123&oid=62768372400
Con Sandra, Dida e Aldo, i miei fratelli, e la nipote Paolina, oltre a qualche occasionale infiltrato, abbiamo da qualche anno l'abitudine di ritagliarci una settimana per fare un trekking da qualche parte. L'anno scorso invece abbiamo affittato una barca e ci siamo fatti un bellissimo giro per le isole pontine. quest'anno abbiamo ripetuto l'esperimento nell'arcipelago toscano.
Lo skipper, Michele Isman, oltre ad essere un amico di famiglia, è formidabile, non ha alcuna parentela con quei nazisti dell'Illinois che hanno fatto la scuola di vela a Caprera e si ritengono in dovere di rivalersi delle angherie subite sottoponendo ad analoghe sevizie i loro equipaggi. Michele al contrario è di carattere dolce e non si infuria mai, anche in presenza di una ciurma di infingardi come la nostra. Appena possibile si naviga a vela, sennò ci si rassegna al motore. Si fanno bagni magnifici dalla mattina presto fino al tramonto, dovunque ci venga la voglia. La navigazione si arricchisce di incontri emozionanti: l'anno passato abbiamo pescato uno splendido tonno e un'aguglia imperiale, questa volta una enorme lampuga...
abbiamo, naturalmente, si dice per dire: la operazione di recupero di pesci di queste dimensioni non è una attività per mollaccioni di città come noi. Peggio, succede che tifiamo per il pesce, salvo rassegnarci – e leccarci i baffi – a cose fatte. Se possibile ancora più emozionanti, l'anno scorso l'incontro con un paio di delfini, quest'anno con una intera tribù che a lungo ha giocato con noi.
non mi è riuscito di caricare il video direttamente, ma lo potete trovare qui:
http://www.facebook.com/video/video.php?v=1466313616123&oid=62768372400
giovedì 17 giugno 2010
Basilicata coast to coast
di Toti
Ho rubato il titolo al simpatico film di Rocco Papaleo, ma non è mia intenzione parlare di cinema. Parlerò invece della Basilicata, interessante regione italiana, che, come i protagonisti del film, ho attraversato appunto “coast to coast” qualche anno prima di loro. Questa bella e varia regione è, purtroppo, quasi totalmente trascurata dal turismo, che per lo più si ferma al mare di Maratea, con scarsissime puntate all’interno, quasi sempre a Matera, per visitare i rinomati “sassi”. Eppure è proprio l’assenza di turismo che dovrebbe costituire uno stimolo alla visita: assenti le grandi folle, la si può visitare quasi ovunque anche in agosto, quando “gli altri” si affollano sulle spiagge. Per giunta, considerata l’altitudine media del suo territorio, d’estate non si soffre nemmeno caldo eccessivo.
Caratteristica della Basilicata, condivisa a dire il vero con molte altre regioni italiane – in particolare quelle appenniniche – è la presenza di molte ed alte colline isolate. Su quasi tutte le quali, presumibilmente per ragioni di sicurezza, sono sorte nel corso dei millenni le città. Le quali appaiono perciò, al turista che percorre le valli, come quasi inaccessibili. Ed in effetti ancora oggi, malgrado le automobili – o forse proprio a causa di queste – esse sono di non facilissimo accesso: le vedi lì, arroccate sulle cime, e le strade sono strette. E, una curva dopo l’altra, alla fine ti accorgi che ci hai messo un bel pò di tempo a raggiungerle.
Di cose belle e interessanti in Basilicata ce ne sono moltissime; e quindi ne dovrò fare una selezione. Darò la preferenza alle città storiche, che – come sempre – sono quelle che danno un sapore particolare ai luoghi italiani, e che consentono di distinguerli gli uni dagli altri; ma, per le stesse ragioni, non trascurerò taluni siti particolari.
Cominciamo da Melfi, città – come molte altre della regione – d’impronta medioevale, adagiata su un’ampia collina, che regala a chi la guarda da lontano un bel colpo d’occhio. E’ interessante percorrerne a piedi i vicoli e visitarne le chiese. Ma la cosa più interessante è il grande castello che domina la città.
Il castello fu uno dei luoghi prediletti da Federico II di Svevia, che qui passava spesso le sue estati, praticando nelle folte foreste del circondario il suo sport preferito: la caccia col falcone, di cui era espertissimo, tanto da scriverne un trattato, che a quel che pare è ancora oggi un riferimento importante per i cultori di quell’arte. Lo spirito di Federico, peraltro, è di casa in tutta la Basilicata, e lo ritroveremo ancora. Ma è di casa anche in Puglia, in Campania e sopratutto in Sicilia, di cui egli fu re e dove passò gran parte della sua vita.
Il castello di Melfi è oggi sede di un interessante museo archeologico, molto ben tenuto, che ospita importanti reperti. C’è anche, in un piccolo ambiente cui si accede da uno dei cortili, un magnifico sarcofago in marmo del II secolo, trovato presso il vicino paese di Rapolla.
La prossima tappa è Venosa, il cui cittadino più illustre è, ancora a oltre due millenni dalla sua nascita, il poeta Orazio, quello del monumentum aere perennius, le celeberrime Odi, ed in particolare le Odi Romane.
Il sito più importante di Venosa è quello del complesso della Trinità, che include la “chiesa antica”, databile al V-VI secolo, di cui è particolarmente interessante il portale d’ingresso, romanico.
Ma la parte più affascinante è quella della cosiddetta “chiesa incompiuta”, una grande costruzione che avrebbe dovuto incorporare la chiesa antica. Iniziata nei primo secolo dopo il mille, non fu portata a termine. Una serie di bellissime mura, colonne, capitelli corinzi, un bel campanile “a vela”, tutti in ottimo stato di conservazione, svettano liberi contro il cielo, ed hanno un fascino particolare che il visitatore coglie immediatamente.
Infine si segnala per la sua imponenza, cui contribuiscono significativamente quattro grandi torrioni cilindrici, il Castello Aragonese (XV secolo), circondato, naturalmente, da un fossato.
Da Venosa ad Acerenza la distanza è di poche decine di chilometri, e la strada, un susseguirsi di curve, è particolarmente panoramica. Si incontrano numerosissime pale eoliche, il cui aspetto “tecnologico” contrasta vivamente con l’ambiente circostante, che è tipicamente agreste.
D’improvviso appare Acerenza, alta e isolata sulla cima di un colle che degrada lentamente in una miriade di campi coltivati. Chi ha la vista aguzza può già scorgere la cattedrale, alta sopra tutti gli altri edifici.
Quando finalmente si arriva in città e si accede alla parte più antica, che come sempre è quella attorno al duomo, si scoprono vicoli e vicoletti lindi e pittoreschi, portali curatissimi e graziose scale esterne che portano alle abitazioni. La gente è cordiale, e il fruttivendolo nel cui negozio sei entrato per comprare qualcosa ti chiede da dove vieni e se ti piace il paese: cose, queste, che credo chiedano ormai in pochissimi posti. Ma lui attende la tua risposta e si compiace visibilmente se gli dici che è tutto bello. E ti augura buona permanenza quando ti congedi.
La cattedrale romanico-gotica, costruita tra l’ XI ed il XIII secolo su una chiesa preesistente, è il monumento di gran lunga più importante del circondario. L’interno, liberato negli anni ’50 da impropri stucchi di epoca barocca, ha pianta poco comune in Italia, ma molto usata nelle cattedrali francesi: comprende infatti il cosiddetto peribolo – una sorta di corridoio in corrispondenza dell’abside, a continuazione delle navate laterali - con cappelle la cui presenza dà grande movimento alle strutture absidali esterne, che a me sono sembrate la parte più interessante del grande edificio. Qua e là, secondo l’uso del romanico, bianche sculture piccole e grandi di esseri mostruosi, o di putti, e qualche edicola, ad alleggerire l’aspetto severo della pietra con cui la chiesa ed il massiccio campanile sono costruiti.
Alcune decine di chilometri, e... centinaia di curve più in là, arriviamo alle cosiddette “dolomiti lucane”. Che in verità di dolomitico hanno ben poco: la roccia non è la chiara dolomia, ma grigia arenaria. Ciò tuttavia non toglie nulla alla bellezza delle loro guglie.
Il fascino di questi luoghi, però, oltre che dalle montagne, viene dai paesini: sembrano costruiti da un architetto capriccioso, che è andato a scovarsi di proposito i luoghi più scoscesi e, almeno ad un primo sguardo, più inaccessibili che la zona offrisse. Ed in effetti è storicamente provato che la scelta avesse obiettivi essenzialmente difensivi. Pietrapertosa è forse l’esempio che meglio illustra questa situazione: per arrivarci bisogna superare un breve tratto di una gola strettissima scavata nella roccia. Come si vede nella foto iniziale la cittadina è costruita quasi per intero sul ripido fianco di una di queste montagne – come una grande mano che la contiene nel suo palmo - e le case in certi punti hanno per muri la roccia viva. Quella foto non è scattata, come potrebbe sembrare, da un aereo; ma dalla cima della montagna, che si raggiunge percorrendo prima le strette e pittoresche viuzze del paesino, poi ripidi sentieri ed infine tozzi gradini scavati nella roccia viva.
Torniamo a valle e percorriamo verso est alcune decine di chilometri della superstrada Basentana, che con il fiume Basento si intreccia più volte lungo il percorso. Sulle cime i paesini, a destra ed a manca, si susseguono come a godersi il panorama verso valle; e vien voglia di andare a visitarli. Ma ci vorrebbero mesi, e non li abbiamo. Lasciata la comoda Basentana, e attraversata una zona di poco usuali rocce a forma di calanchi sabbiosi, ci arrampichiamo di nuovo per una quindicina di chilometri, fino a Craco.
Craco è un paese fantasma: nei primi anni 60, una vasta frana costrinse gli abitanti ad abbandonarlo. Ne parla, in una breve sequenza del suo film, anche Rocco Papaleo, che menziona anche la causa scatenante del disastro: la costruzione delle reti idrica e fognaria, che evidentemente non c’erano. Il che gli fa dire che, forse, il paese si ribellò fin d’allora al progresso.
Quasi tutti i resti di antiche costruzioni, che siano rimaste incompiute (come la “chiesa grande” di Venosa, già incontrata) o che – dopo, presumibilmente, un lungo periodo di servizio – siano state abbandonate per una ragione qualsiasi, traumatica come un terremoto, un’alluvione o la guerra, ma anche per il naturale invecchiamento che le ha reso inutilizzabili – suscitano sensazioni particolari. In Europa – non per nulla viene chiamato “il vecchio continente” - ce ne sono tante, e ne ho viste dovunque: in Francia, in Spagna, in Inghilterra, in Scozia. In Italia poi, terra di terremoti, ce ne sono moltissime. Ma queste di Craco mi hanno emozionato particolarmente.
Se, sfidando il divieto che ammonisce di non farlo e le spine minacciose dei secchi arbusti che cercano di sbarrarti il passo, percorri quel che rimane delle sue strade, ti rendi conto che la vecchia Craco doveva essere bellissima: il posto – su uno sperone roccioso quasi librato nell’aria – le conferiva un panorama eccezionale sui calanchi di cui ho detto sopra; e c’erano le strade, le case, i campanili, le chiese, i palazzi, tutti di architettura pregevole, di origine medioevale. E t’immagini il dramma dei suoi abitanti costretti ad abbandonare la città dei loro genitori e dei loro nonni. Tanto più che il luogo in cui si sono trasferiti – Peschiera, poco più in basso – è, al confronto, e con ogni rispetto, quasi insignificante: un non luogo, piuttosto.
Matera non è lontana da qui, ed infatti ci arriviamo in breve tempo, percorrendo una strada per una volta con un numero ragionevole di curve. Matera è una grande città, ben più grande di com’era Craco. Eppure, vista da lontano, la sua struttura assomiglia a quella che Craco doveva avere ai suoi tempi; specie se la si guarda da nord, dalla parte della gravina (le “gravine”, numerosissime in Puglia – e qui siamo a pochi chilometri dal confine con la Puglia – sono, come le “cave” della Sicilia sud-orientale: valli - spesso veri e propri canyon - incise dai fiumi nel corso dei millenni). L’impianto generale è medioevale, e come in molte delle cittadine che abbiamo sin qui visitato, vicoli e stradine e scalinate e terrazze si susseguono in un ordine disordinato che è spesso tanto affascinante quanto assolutamente incompatibile con le “comodità” della vita odierna, e – in particolare – con l’automobile. Così che, com’è avvenuto quasi ovunque e non solo in Basilicata, attorno al vecchio centro urbano si è sviluppata la città nuova. Che è, naturalmente, molto più “ordinata” rispetto alla vecchia, con strade più ampie nelle quali le automobili si muovono meglio; ma allo stesso tempo non ha più il fascino di quella antica, che perciò rimane nel cuore di chi c’è nato.
Il centro antico, cresciuto attorno alla cattedrale, a Matera viene chiamato significativamente “la Civita”. Attorno alla Civita si è sviluppato il resto della città antica, costituita essenzialmente dai due rioni dei “Sassi”, il Sasso Barisano a nord ed il sasso Caveoso a sud rispetto alla Civita, ma che guardano entrambi verso la gravina. L’origine dei Sassi si perde nella notte dei tempi, così come continua nei secoli è stata la loro manomissione perché si adattassero alle esigenze delle varie popolazioni che li hanno abitati. Ed ancora oggi vi si trovano esempi di abitazioni trogloditiche, interamente scavate nella roccia, affiancate ad abitazioni di origine normanna, e poi rinascimentale, barocca, e così via fino ai nostri giorni. Durante lo scorso secolo le condizioni igieniche di molti di questi luoghi furono giudicate inaccettabili secondo gli standard allora vigenti (ad esempio, la mortalità infantile era tre volte quella media italiana), anche per il continuo diminuire della disponibilità di acqua aggravato dal contemporaneo aumentare della popolazione residente. Così negli anni cinquanta venne disposto per legge lo sfollamento, che fu completato in un quindicennio.
Dopo una lunga fase di abbandono quasi totale, intorno alla fine del secolo scorso ebbe inizio, per l’evidente grande valore storico e ambientale dei luoghi, la fase di recupero, che continua tuttora, particolarmente nel Sasso Barisano. Oggi i Sassi sono meta di una notevole corrente turistica, alimentata anche dal loro inserimento, nel 1993, nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO. Non meno importante è stata la cinematografia: numerosissimi film vi sono stati ambientati, tra cui Il vangelo secondo Matteo di Pasolini, Allonsanfan dei fratelli Taviani e La Passione di Cristo di Mel Gibson.
Naturalmente luoghi come questi ospitano chiese e palazzi di grande interesse artistico; e numerosi sono anche i musei che documentano la storia della città. Ma niente fa godere lo spirito più di una passeggiata – che spesso diventa un’arrampicata – per i vicoli e le scale dei Sassi. Specie se si è colti dal tramonto al termine di una bella giornata.
Siamo alla fine del viaggio. E dopo Matera prendiamo la via del ritorno. Ma lungo la strada ci imbattiamo – è il caso di dirlo – in Lagopésole. Il castello di questa cittadina si scorge infatti da molto lontano, quando le sue case non sono ancora percepibili. Mai come in questo caso è legittima la frase comune “il castello domina la città”; anzi, sarebbe più appropriato dire “il castello incombe sulla città”. La pianta ha le dimensioni di un campo di calcio; e la struttura massiccia che l’accompagna, tra l’altro restaurata alla perfezione solo pochi anni prima, non potrebbe in alcun modo passare inosservata.
E’ uno dei tanti castelli voluti da Federico II, che oggi ospita un museo. Nei suoi immensi ambienti, che – bisogna riconoscerlo – sono difficilissimi da riempire, i responsabili del museo hanno installato alcune quinte – grandi, ma inadeguate a quegli enormi spazi - che ospitano pannelli con scene della vita e delle opere di quel grande sovrano. Tra esse, particolarmente curata, l’illustrazione del trattato De arte venandi cum avibus, sulla caccia con il falcone, di cui egli era grande cultore ed esperto.
E qui racconto un curioso episodio. Dopo aver pagato il biglietto, assieme ad una ventina di altre persone ci avviamo alla visita. La gentile signora della biglietteria ci accompagna, adesso in veste di guida. Ma ha appena cominciato che il suo telefono squilla. Si scusa con noi: altri visitatori incalzano, e deve tornare alla biglietteria, dove evidentemente non c’è nessuno che possa sostituirla. Rimaniamo soli a continuare la visita, ed alcuni mugugnano. A questo punto mia moglie, che, nel corso dei suoi studi, di Federico II è stata un’ammirata studiosa, comincia a parlarne con i toni di chi la sa lunga. Tutti la attorniano, curiosi ed attenti, e lei continua appassionatamente. Io, che queste cose le ho sentite - e dalla stessa sorgente - mille volte, invece precedo tutti e continuo la visita da solo. Alla fine mi ritrovo all’esterno, in uno dei grandi cortili del castello, ed uso il tempo d’attesa a far foto, cui la bella severità dell’ambiente mi stimola.
Dopo una ventina di minuti il gruppo finisce con lo sbucare, come me, nel cortile. E’ a questo punto che scoppia un applauso spontaneo: la performance di Adriana è stata evidentemente apprezzata.
(Non era, per la verità, la prima volta: un precedente quasi identico si era verificato, qualche anno prima, negli scavi di Tharros, in Sardegna, quando l’argomento riguardava il decumanus maximus ed il cardo maximus, strutture principali dell’urbanistica romana, che la giovane guida che ci accompagnava non sembrava conoscere in dettaglio).
La nostra Basilicata coast to coast si conclude qui.
Quasi tutte le fotografie sono mie. Fanno eccezione, per fatti contingenti, quelle di Matera e pochissime altre (tra cui, ad es., la vista dal cielo di Acerenza), che provengono dal web.
1. Pietrapertosa
Ho rubato il titolo al simpatico film di Rocco Papaleo, ma non è mia intenzione parlare di cinema. Parlerò invece della Basilicata, interessante regione italiana, che, come i protagonisti del film, ho attraversato appunto “coast to coast” qualche anno prima di loro. Questa bella e varia regione è, purtroppo, quasi totalmente trascurata dal turismo, che per lo più si ferma al mare di Maratea, con scarsissime puntate all’interno, quasi sempre a Matera, per visitare i rinomati “sassi”. Eppure è proprio l’assenza di turismo che dovrebbe costituire uno stimolo alla visita: assenti le grandi folle, la si può visitare quasi ovunque anche in agosto, quando “gli altri” si affollano sulle spiagge. Per giunta, considerata l’altitudine media del suo territorio, d’estate non si soffre nemmeno caldo eccessivo.
Caratteristica della Basilicata, condivisa a dire il vero con molte altre regioni italiane – in particolare quelle appenniniche – è la presenza di molte ed alte colline isolate. Su quasi tutte le quali, presumibilmente per ragioni di sicurezza, sono sorte nel corso dei millenni le città. Le quali appaiono perciò, al turista che percorre le valli, come quasi inaccessibili. Ed in effetti ancora oggi, malgrado le automobili – o forse proprio a causa di queste – esse sono di non facilissimo accesso: le vedi lì, arroccate sulle cime, e le strade sono strette. E, una curva dopo l’altra, alla fine ti accorgi che ci hai messo un bel pò di tempo a raggiungerle.
Di cose belle e interessanti in Basilicata ce ne sono moltissime; e quindi ne dovrò fare una selezione. Darò la preferenza alle città storiche, che – come sempre – sono quelle che danno un sapore particolare ai luoghi italiani, e che consentono di distinguerli gli uni dagli altri; ma, per le stesse ragioni, non trascurerò taluni siti particolari.
Cominciamo da Melfi, città – come molte altre della regione – d’impronta medioevale, adagiata su un’ampia collina, che regala a chi la guarda da lontano un bel colpo d’occhio. E’ interessante percorrerne a piedi i vicoli e visitarne le chiese. Ma la cosa più interessante è il grande castello che domina la città.
Il castello fu uno dei luoghi prediletti da Federico II di Svevia, che qui passava spesso le sue estati, praticando nelle folte foreste del circondario il suo sport preferito: la caccia col falcone, di cui era espertissimo, tanto da scriverne un trattato, che a quel che pare è ancora oggi un riferimento importante per i cultori di quell’arte. Lo spirito di Federico, peraltro, è di casa in tutta la Basilicata, e lo ritroveremo ancora. Ma è di casa anche in Puglia, in Campania e sopratutto in Sicilia, di cui egli fu re e dove passò gran parte della sua vita.
Il castello di Melfi è oggi sede di un interessante museo archeologico, molto ben tenuto, che ospita importanti reperti. C’è anche, in un piccolo ambiente cui si accede da uno dei cortili, un magnifico sarcofago in marmo del II secolo, trovato presso il vicino paese di Rapolla.
La prossima tappa è Venosa, il cui cittadino più illustre è, ancora a oltre due millenni dalla sua nascita, il poeta Orazio, quello del monumentum aere perennius, le celeberrime Odi, ed in particolare le Odi Romane.
Il sito più importante di Venosa è quello del complesso della Trinità, che include la “chiesa antica”, databile al V-VI secolo, di cui è particolarmente interessante il portale d’ingresso, romanico.
Ma la parte più affascinante è quella della cosiddetta “chiesa incompiuta”, una grande costruzione che avrebbe dovuto incorporare la chiesa antica. Iniziata nei primo secolo dopo il mille, non fu portata a termine. Una serie di bellissime mura, colonne, capitelli corinzi, un bel campanile “a vela”, tutti in ottimo stato di conservazione, svettano liberi contro il cielo, ed hanno un fascino particolare che il visitatore coglie immediatamente.
5. Venosa.In alto la zona archologica con il complesso della "chiesa incompiuta".
In basso un capitello corinzio e l'interno della "chiesa antica".
In basso un capitello corinzio e l'interno della "chiesa antica".
Infine si segnala per la sua imponenza, cui contribuiscono significativamente quattro grandi torrioni cilindrici, il Castello Aragonese (XV secolo), circondato, naturalmente, da un fossato.
Da Venosa ad Acerenza la distanza è di poche decine di chilometri, e la strada, un susseguirsi di curve, è particolarmente panoramica. Si incontrano numerosissime pale eoliche, il cui aspetto “tecnologico” contrasta vivamente con l’ambiente circostante, che è tipicamente agreste.
D’improvviso appare Acerenza, alta e isolata sulla cima di un colle che degrada lentamente in una miriade di campi coltivati. Chi ha la vista aguzza può già scorgere la cattedrale, alta sopra tutti gli altri edifici.
Quando finalmente si arriva in città e si accede alla parte più antica, che come sempre è quella attorno al duomo, si scoprono vicoli e vicoletti lindi e pittoreschi, portali curatissimi e graziose scale esterne che portano alle abitazioni. La gente è cordiale, e il fruttivendolo nel cui negozio sei entrato per comprare qualcosa ti chiede da dove vieni e se ti piace il paese: cose, queste, che credo chiedano ormai in pochissimi posti. Ma lui attende la tua risposta e si compiace visibilmente se gli dici che è tutto bello. E ti augura buona permanenza quando ti congedi.
La cattedrale romanico-gotica, costruita tra l’ XI ed il XIII secolo su una chiesa preesistente, è il monumento di gran lunga più importante del circondario. L’interno, liberato negli anni ’50 da impropri stucchi di epoca barocca, ha pianta poco comune in Italia, ma molto usata nelle cattedrali francesi: comprende infatti il cosiddetto peribolo – una sorta di corridoio in corrispondenza dell’abside, a continuazione delle navate laterali - con cappelle la cui presenza dà grande movimento alle strutture absidali esterne, che a me sono sembrate la parte più interessante del grande edificio. Qua e là, secondo l’uso del romanico, bianche sculture piccole e grandi di esseri mostruosi, o di putti, e qualche edicola, ad alleggerire l’aspetto severo della pietra con cui la chiesa ed il massiccio campanile sono costruiti.
Alcune decine di chilometri, e... centinaia di curve più in là, arriviamo alle cosiddette “dolomiti lucane”. Che in verità di dolomitico hanno ben poco: la roccia non è la chiara dolomia, ma grigia arenaria. Ciò tuttavia non toglie nulla alla bellezza delle loro guglie.
Il fascino di questi luoghi, però, oltre che dalle montagne, viene dai paesini: sembrano costruiti da un architetto capriccioso, che è andato a scovarsi di proposito i luoghi più scoscesi e, almeno ad un primo sguardo, più inaccessibili che la zona offrisse. Ed in effetti è storicamente provato che la scelta avesse obiettivi essenzialmente difensivi. Pietrapertosa è forse l’esempio che meglio illustra questa situazione: per arrivarci bisogna superare un breve tratto di una gola strettissima scavata nella roccia. Come si vede nella foto iniziale la cittadina è costruita quasi per intero sul ripido fianco di una di queste montagne – come una grande mano che la contiene nel suo palmo - e le case in certi punti hanno per muri la roccia viva. Quella foto non è scattata, come potrebbe sembrare, da un aereo; ma dalla cima della montagna, che si raggiunge percorrendo prima le strette e pittoresche viuzze del paesino, poi ripidi sentieri ed infine tozzi gradini scavati nella roccia viva.
Torniamo a valle e percorriamo verso est alcune decine di chilometri della superstrada Basentana, che con il fiume Basento si intreccia più volte lungo il percorso. Sulle cime i paesini, a destra ed a manca, si susseguono come a godersi il panorama verso valle; e vien voglia di andare a visitarli. Ma ci vorrebbero mesi, e non li abbiamo. Lasciata la comoda Basentana, e attraversata una zona di poco usuali rocce a forma di calanchi sabbiosi, ci arrampichiamo di nuovo per una quindicina di chilometri, fino a Craco.
Craco è un paese fantasma: nei primi anni 60, una vasta frana costrinse gli abitanti ad abbandonarlo. Ne parla, in una breve sequenza del suo film, anche Rocco Papaleo, che menziona anche la causa scatenante del disastro: la costruzione delle reti idrica e fognaria, che evidentemente non c’erano. Il che gli fa dire che, forse, il paese si ribellò fin d’allora al progresso.
Quasi tutti i resti di antiche costruzioni, che siano rimaste incompiute (come la “chiesa grande” di Venosa, già incontrata) o che – dopo, presumibilmente, un lungo periodo di servizio – siano state abbandonate per una ragione qualsiasi, traumatica come un terremoto, un’alluvione o la guerra, ma anche per il naturale invecchiamento che le ha reso inutilizzabili – suscitano sensazioni particolari. In Europa – non per nulla viene chiamato “il vecchio continente” - ce ne sono tante, e ne ho viste dovunque: in Francia, in Spagna, in Inghilterra, in Scozia. In Italia poi, terra di terremoti, ce ne sono moltissime. Ma queste di Craco mi hanno emozionato particolarmente.
Se, sfidando il divieto che ammonisce di non farlo e le spine minacciose dei secchi arbusti che cercano di sbarrarti il passo, percorri quel che rimane delle sue strade, ti rendi conto che la vecchia Craco doveva essere bellissima: il posto – su uno sperone roccioso quasi librato nell’aria – le conferiva un panorama eccezionale sui calanchi di cui ho detto sopra; e c’erano le strade, le case, i campanili, le chiese, i palazzi, tutti di architettura pregevole, di origine medioevale. E t’immagini il dramma dei suoi abitanti costretti ad abbandonare la città dei loro genitori e dei loro nonni. Tanto più che il luogo in cui si sono trasferiti – Peschiera, poco più in basso – è, al confronto, e con ogni rispetto, quasi insignificante: un non luogo, piuttosto.
Matera non è lontana da qui, ed infatti ci arriviamo in breve tempo, percorrendo una strada per una volta con un numero ragionevole di curve. Matera è una grande città, ben più grande di com’era Craco. Eppure, vista da lontano, la sua struttura assomiglia a quella che Craco doveva avere ai suoi tempi; specie se la si guarda da nord, dalla parte della gravina (le “gravine”, numerosissime in Puglia – e qui siamo a pochi chilometri dal confine con la Puglia – sono, come le “cave” della Sicilia sud-orientale: valli - spesso veri e propri canyon - incise dai fiumi nel corso dei millenni). L’impianto generale è medioevale, e come in molte delle cittadine che abbiamo sin qui visitato, vicoli e stradine e scalinate e terrazze si susseguono in un ordine disordinato che è spesso tanto affascinante quanto assolutamente incompatibile con le “comodità” della vita odierna, e – in particolare – con l’automobile. Così che, com’è avvenuto quasi ovunque e non solo in Basilicata, attorno al vecchio centro urbano si è sviluppata la città nuova. Che è, naturalmente, molto più “ordinata” rispetto alla vecchia, con strade più ampie nelle quali le automobili si muovono meglio; ma allo stesso tempo non ha più il fascino di quella antica, che perciò rimane nel cuore di chi c’è nato.
Il centro antico, cresciuto attorno alla cattedrale, a Matera viene chiamato significativamente “la Civita”. Attorno alla Civita si è sviluppato il resto della città antica, costituita essenzialmente dai due rioni dei “Sassi”, il Sasso Barisano a nord ed il sasso Caveoso a sud rispetto alla Civita, ma che guardano entrambi verso la gravina. L’origine dei Sassi si perde nella notte dei tempi, così come continua nei secoli è stata la loro manomissione perché si adattassero alle esigenze delle varie popolazioni che li hanno abitati. Ed ancora oggi vi si trovano esempi di abitazioni trogloditiche, interamente scavate nella roccia, affiancate ad abitazioni di origine normanna, e poi rinascimentale, barocca, e così via fino ai nostri giorni. Durante lo scorso secolo le condizioni igieniche di molti di questi luoghi furono giudicate inaccettabili secondo gli standard allora vigenti (ad esempio, la mortalità infantile era tre volte quella media italiana), anche per il continuo diminuire della disponibilità di acqua aggravato dal contemporaneo aumentare della popolazione residente. Così negli anni cinquanta venne disposto per legge lo sfollamento, che fu completato in un quindicennio.
Dopo una lunga fase di abbandono quasi totale, intorno alla fine del secolo scorso ebbe inizio, per l’evidente grande valore storico e ambientale dei luoghi, la fase di recupero, che continua tuttora, particolarmente nel Sasso Barisano. Oggi i Sassi sono meta di una notevole corrente turistica, alimentata anche dal loro inserimento, nel 1993, nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO. Non meno importante è stata la cinematografia: numerosissimi film vi sono stati ambientati, tra cui Il vangelo secondo Matteo di Pasolini, Allonsanfan dei fratelli Taviani e La Passione di Cristo di Mel Gibson.
Naturalmente luoghi come questi ospitano chiese e palazzi di grande interesse artistico; e numerosi sono anche i musei che documentano la storia della città. Ma niente fa godere lo spirito più di una passeggiata – che spesso diventa un’arrampicata – per i vicoli e le scale dei Sassi. Specie se si è colti dal tramonto al termine di una bella giornata.
Siamo alla fine del viaggio. E dopo Matera prendiamo la via del ritorno. Ma lungo la strada ci imbattiamo – è il caso di dirlo – in Lagopésole. Il castello di questa cittadina si scorge infatti da molto lontano, quando le sue case non sono ancora percepibili. Mai come in questo caso è legittima la frase comune “il castello domina la città”; anzi, sarebbe più appropriato dire “il castello incombe sulla città”. La pianta ha le dimensioni di un campo di calcio; e la struttura massiccia che l’accompagna, tra l’altro restaurata alla perfezione solo pochi anni prima, non potrebbe in alcun modo passare inosservata.
E’ uno dei tanti castelli voluti da Federico II, che oggi ospita un museo. Nei suoi immensi ambienti, che – bisogna riconoscerlo – sono difficilissimi da riempire, i responsabili del museo hanno installato alcune quinte – grandi, ma inadeguate a quegli enormi spazi - che ospitano pannelli con scene della vita e delle opere di quel grande sovrano. Tra esse, particolarmente curata, l’illustrazione del trattato De arte venandi cum avibus, sulla caccia con il falcone, di cui egli era grande cultore ed esperto.
E qui racconto un curioso episodio. Dopo aver pagato il biglietto, assieme ad una ventina di altre persone ci avviamo alla visita. La gentile signora della biglietteria ci accompagna, adesso in veste di guida. Ma ha appena cominciato che il suo telefono squilla. Si scusa con noi: altri visitatori incalzano, e deve tornare alla biglietteria, dove evidentemente non c’è nessuno che possa sostituirla. Rimaniamo soli a continuare la visita, ed alcuni mugugnano. A questo punto mia moglie, che, nel corso dei suoi studi, di Federico II è stata un’ammirata studiosa, comincia a parlarne con i toni di chi la sa lunga. Tutti la attorniano, curiosi ed attenti, e lei continua appassionatamente. Io, che queste cose le ho sentite - e dalla stessa sorgente - mille volte, invece precedo tutti e continuo la visita da solo. Alla fine mi ritrovo all’esterno, in uno dei grandi cortili del castello, ed uso il tempo d’attesa a far foto, cui la bella severità dell’ambiente mi stimola.
Dopo una ventina di minuti il gruppo finisce con lo sbucare, come me, nel cortile. E’ a questo punto che scoppia un applauso spontaneo: la performance di Adriana è stata evidentemente apprezzata.
(Non era, per la verità, la prima volta: un precedente quasi identico si era verificato, qualche anno prima, negli scavi di Tharros, in Sardegna, quando l’argomento riguardava il decumanus maximus ed il cardo maximus, strutture principali dell’urbanistica romana, che la giovane guida che ci accompagnava non sembrava conoscere in dettaglio).
La nostra Basilicata coast to coast si conclude qui.
Quasi tutte le fotografie sono mie. Fanno eccezione, per fatti contingenti, quelle di Matera e pochissime altre (tra cui, ad es., la vista dal cielo di Acerenza), che provengono dal web.
mercoledì 26 maggio 2010
Nonni e nipoti
di alberto
Partiti da Milano il 6 dicembre 1943, arrivati l'11 ad Auschwitz
dopo un viaggio che non posso immaginare che tremendo,
come abbiamo visto negli spezzoni dei filmati dell'epoca,
i miei dolcissimi nonni sono stati ammazzati all'arrivo,
risparmiandosi almeno ulteriori sofferenze.
Io non ne ho ricordo cosciente, ero piccolissimo, so che hanno continuato a sorridermi
per tutti gli anni seguenti dalle fotografie che stavano sul cassettone dei miei genitori.
Della mia nonna, Ilda Zamorani, che si è consegnata spontaneamente per condividere la sorte del nonno,
arrestato a Monza per una spiata, mi riservo di parlare un'altra volta.
Alessandro Colombo, il mio nonno, era un personaggio notevole:
di famiglia poverissima, aveva potuto studiare grazie ad una istituzione benefica.
Ho potuto ricostruire le tappe fondamentali della sua vita, diploma, concorsi, matrimonio, ecc.
attraverso la documentazione che la benemerita rivista mensile IL VESSILLO ISRAELITICO
ha conservato per la nostra memoria.
Alessandro Colombo è anche il mio nipote nuovo di zecca,
siamo andati a far la sua conoscenza nei giorni scorsi.
Per una serie di circostanze curiose e bizzarre, alcune attinenti la globbbalizzazione,
altre le misteriose alchimie dell'amore, altre infine la scelta di un ospedale dotato, in teoria, di vasche per il parto in acqua, ha finito col nascere a Tichi. E' una cittadina della Slesia dove prati e boschi,
impregnati dalle piogge che hanno allagato intere regioni del paese, hanno il colore dello smeraldo,
le case quello nerastro del fumo di decenni di industrie e riscaldamento a carbone.
Dista da Auschwitz meno di 20 chilometri.
Partiti da Milano il 6 dicembre 1943, arrivati l'11 ad Auschwitz
dopo un viaggio che non posso immaginare che tremendo,
come abbiamo visto negli spezzoni dei filmati dell'epoca,
i miei dolcissimi nonni sono stati ammazzati all'arrivo,
risparmiandosi almeno ulteriori sofferenze.
Io non ne ho ricordo cosciente, ero piccolissimo, so che hanno continuato a sorridermi
per tutti gli anni seguenti dalle fotografie che stavano sul cassettone dei miei genitori.
Della mia nonna, Ilda Zamorani, che si è consegnata spontaneamente per condividere la sorte del nonno,
arrestato a Monza per una spiata, mi riservo di parlare un'altra volta.
Alessandro Colombo, il mio nonno, era un personaggio notevole:
di famiglia poverissima, aveva potuto studiare grazie ad una istituzione benefica.
Ho potuto ricostruire le tappe fondamentali della sua vita, diploma, concorsi, matrimonio, ecc.
attraverso la documentazione che la benemerita rivista mensile IL VESSILLO ISRAELITICO
ha conservato per la nostra memoria.
Alessandro Colombo è anche il mio nipote nuovo di zecca,
siamo andati a far la sua conoscenza nei giorni scorsi.
Per una serie di circostanze curiose e bizzarre, alcune attinenti la globbbalizzazione,
altre le misteriose alchimie dell'amore, altre infine la scelta di un ospedale dotato, in teoria, di vasche per il parto in acqua, ha finito col nascere a Tichi. E' una cittadina della Slesia dove prati e boschi,
impregnati dalle piogge che hanno allagato intere regioni del paese, hanno il colore dello smeraldo,
le case quello nerastro del fumo di decenni di industrie e riscaldamento a carbone.
Dista da Auschwitz meno di 20 chilometri.
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