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mercoledì 9 febbraio 2011

GIOVANNI RAJBERTI
a centocinquant'anni dalla sua morte

di Dario


Giovanni Rajberti fu un medico nato a Milano nel 1805 e trapiantato a Monza dove morì centocinquant'anni fa, esattamente nell'anno della nascita dell'unità d'Italia. A lui è dedicata la via di Monza che da Via Lecco mena in Via Canova.

All'attività professionale il Rajberti unì una feconda attività letteraria che lo portò a frequentare diversi salotti della Milano dell'epoca fra i quali quello di casa Manzoni ciò che gli consentì di fare conoscenza e amicizia con diversi personaggi da Liszt a Rossini, da Balzac a Carlo Cattaneo.
Dotato di uno spiccato senso umoristico fu autore delle traslazioni in meneghino di alcune satire di Orazio e usò il dialetto milanese per le sue poesie che talvolta gli procurarono fastidi da parte della polizia.
Sembra che il tenore di certi suoi scritti fossero stati la causa del suo sofferto trasferimento dall'Ospedale Maggiore di Milano all'Ospedale Civico di Monza nel 1842.
Il suo animo irredentista esplose in occasione delle cinque giornate di Milano quando egli indirizzò ai milanesi una poesia che rappresentò una vera e propria invettiva nei confronti del governo asburgico.
A Monza il Rajberti scrisse le sue tre opere più importanti: Sul gatto con il sottotitolo Cenni fisiologico-morali (1845), L'arte di convitare (1851) e Il viaggio di un ignorante, ossia Ricetta per gli ipocondriaci (1857).
Io desidero soffermarmi soprattutto sull'opera che riguarda il gatto che io non esito a definire notevole non solo per l'abilità dell'autore nella descrizione minuziosa della fisiologia e del carattere dell'animale, ma anche per l'arguzia con cui il Rajberti, ogni qual volta si presenti l'occasione, esprime un commento morale, rilevando somiglianze o diversità tra l'oggetto scrutato e il mondo umano.

Un esempio dell'osservazione minuziosa della fisiologia si ha nella descrizione del gatto impegnato nella consumazione del suo pasto: "Quasi tutti gli altri possono mangiare con qualche disattenzione; ma egli, per la speciale conformazione della cavità orale, quando mangia ha necessariamente l'anima tutta intesa a quell'affare: essendoché nel moto alterno della masticazione, ad ogni aprir la mascella il cibo cadrebbe fuori, se di volta in volta non lo rattenesse con quei colpi misurati della testa che egli agita dal basso in alto."

Bello anche il capitolo dal titolo "Pericolo che corre sui tetti e sue cadute" che ricordo di aver letto da ragazzo su qualche antologia: "O no, non tremate mai per il gatto, poiché egli sa sempre quello che si fa, o sia che si aggiri tra i labirinti di un gran mucchio di legne o di vecchie masserizie accatastate sul solaio, o sia che passeggi filosoficamente sulle macerie o i rottami di un edificio smantellato, come già Caio Mario in Cartagine. Insomma non vi è piano ineguale rotto, fallace che lo riduca a periglio, perché egli gran maestro di cautele e di prudenza, va con piè leggero e sospeso, e se quella zampa esploratrice non sente sotto la dovuta resistenza, ei la ritira prima di affidarle il peso del corpo. Così noi uomini imparassimo da lui a non far passi falsi nel cammino della vita: quanti errori e pentimenti di meno!"

Il confronto che il Rajberti fa con il cane lo porta a conclusioni poco esaltanti nei confronti del gatto: "In casa il cane è tutto: custode, difensore, servitore, amico,: riceve cordialmente i famigliari, abbaia ai forestieri e ai pezzenti, s'affligge e perde l'appetito nelle assenze del padrone: alla di lui morte poco manca ch'ei non muoia di dolore (proprio quando gli eredi inconsolabili cominciano a rivivere la felicità), insomma è il vero disperato per eccesso di buon cuore. Ma il gatto oibò! egli non farebbe un passo fuori dalla porta per vedere passare un re o un papa, nè darebbe la coda di un sorcio per realizzare la repubblica di Platone. Se nella sua stessa contrada si facesse una guerra di sterminio, egli non si incomoderebbe neppure a sporgere il muso dal margine del tetto per vedere cosa succede. Se la famiglia cui appartiene muore tutta di contagio, egli non dormirà per questo un minuto di meno e se abbrucia la casa egli si ritirerà in quella che vien dopo a godere lo spettacolo da un abbaino. Oh che anima imperturbabile, oh che sistema ambulante di filosofia! Qual cosa di meglio insegnarono gli stoici che forse attinsero allo studio del gatto i migliori precetti della loro scuola? Io, che quando mi lascio tentare ad aprire alcun libro filosofico, di solito grido dopo due pagine «oh che bestia di filosofo!», ogni qual volta che penso alla virtù del gatto, esclamo «oh che filosofo di bestia!»
Dirà taluno che questa è filosofia d'indifferenza e d'egoismo. Ma cesserà forse perciò d'essere una filosofia, e molto diffusa e messa in credito?

Ed ecco la morale con cui i Rajberti chiude Sul gatto:
"Oh voi, che in amore, in amicizia, in letteratura, in morale, in qualunque umana cosa sapete variare a tempo e misura, notate bene queste parole, che voglio ripetervi in latino, perché vi servano da testo autorevole nei tanti bisogni di usarne. La fermezza e l'immobilità sono virtù delle montagne e l'ostinazione è il peggior vizio degli sciocchi, ma la brava gente è mutabile: Sapientis est mutare consilium. Replico dunque che oggi sono nella persuasione fermissima, inespugnabile, eterna che a noi convenga essere gatti: salvo decidere alla prima occasione se non torni meglio essere camaleonte o pappagallo, asino o bue, specialmente quando si tratti di bue grasso o di asino d'oro."

P.S.: Le fografie della gatta sono una gentile concessione del mio nipotino, padrone e...schiavo di Birba.



sabato 22 gennaio 2011

Testimonianze


Dopo due anni di lavoro, durante i quali ho raccolto alcune testimonianze di cittadini monzesi protagonisti del "grande esodo" dalle terre del confine orientale, nel secondo dopoguerra, è uscito in questi giorni nelle librerie un libro nel quale, queste testimonianze, sono pubblicate nella loro versione completa e integrale (fino ad oggi erano stati pubblicati degli stralci sul giornale on-line l'Arengario). Oltre alle testimonianze, nel libro, potrete trovare una parte storica in cui è riportata integralmente la relazione finale della Commissione storico-culturale italo-slovena, scaturita da un lungo lavoro di studio e confronto, protrattosi per sette anni dal 1993 al 2000, che ha visto impegnati storici e uomini di cultura di entrambi i paesi. Infine nella terza e ultima parte troverete un mio racconto liberamente tratto da una delle testimonianze raccolte.

Sono testimonianze che vanno lette come si legge un racconto: non sono articoli di giornale, non nascondono verità, non svelano l'ignoto, non supportano tesi o rivendicano ragioni, non lanciano accuse o assoluzioni; sono racconti di vita, di uomini e donne, che ci portano a rivivere per un attimo attraverso i loro ricordi, attraverso le loro storie personali, un pezzo della storia del nostro Paese e della nostra città. Raccontare la propria vita è come aprire la porta della propria casa, facendo entrare degli sconosciuti fra le pareti domestiche; è un segno di fiducia verso il mondo, una disponibilità al confronto, una speranza nel futuro. Spero infine che questo lavoro possa contribuire a far sì che il "grande esodo" e la tragedia delle foibe si affranchino dalle dispute ideologiche e diventino a pieno titolo parte della memoria storica condivisa.

Umberto De Pace

P.S.: avrò il piacere di presentare il libro:

- l'8 febbraio alla Sala Maddalena alle ore 21,oo insieme a Marco Cuzzi, ricercatore di storia contemporanea presso la Facoltà di Scienza Politiche dell'Università Statale di Milano ;

- il 10 febbraio al Liceo Zucchi alle ore 11,15 nell'ambito dei Memorandi Dies - percorso di formazione alla memoria condivisa aperto agli studenti della rete Licei Brianza e ai cittadini di Monza. Si svolgeranno proiezioni multimediali e letture sceniche delle testimonianze da parte degli studenti.



domenica 12 dicembre 2010

Il presepe

di Nella
Tra i ricordi della mia infanzia il più magico è legato al Natale. Abitavamo allora a Intra, sul Lago Maggiore. Eravamo in tre: io, la mamma e mio fratello. C’era la guerra e il papà, recatosi in Etiopia per ‘fondare’ assieme a tanti altri ‘le basi economiche dell’Impero’ era rimasto bloccato là e poi arruolato allo scoppio delle ostilità. Ci è rimasto sei anni, prigioniero degli inglesi. Malgrado le ristrettezze economiche, il razionamento del cibo, la presenza fisica della guerra con i tedeschi nel giardino di casa che sparavano ai partigiani nascosti nelle montagne al di là del fiume, e più tardi il mitico aereo ‘Pippo’ che sorvolava il lago diretto verso Milano, la mia è stata un’infanzia felice.
 Protetta e ovattata dall’amore di mia madre che in tutti quei lunghi anni non solo ci ha fatto anche da padre ma si industriava per arrotondare il nostro magro bilancio. Ricordo nei particolari la confezione dei ‘tronchetti’ che venivano poi venduti sulle bancarelle dell’Isola Bella. Si trattava di appiccicare su delle sezioni di tronco delle cartoline con vedute del lago e poi mimetizzare le giunture con alberi, cespugli e fiori realizzati con un impasto di diversi colori fatto di acqua e caolino. Era il nostro pongo ante-litteram e io e mio fratello ci divertivamo un sacco ad aiutare la mamma che , probabilmente, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Una roba terribilmente kitsch che a me però sembrava bellissima e che comunque andava a ruba. Per loro ho ritirato fuori dagli scatoloni tutti i miei tesori, ho fatto i necessari restauri e proprio ieri ho ricostruito con un pò di magone il mitico presepe, ripensando a mia madre che nella sua lettera di commiato si era raccomandata che parlassi di lei ai figli dei miei figli. Ho incominciato a mantenere la promessa perché Tito e Siro capiscano seppur così piccini che l’amore da cui sono circondati viene da lontano, che il filo non si è interrotto, che gli affetti veri non muoiono mai.


Ma il capolavoro della mamma è stato il presepe. Ci aveva lavorato di nascosto un’intera estate realizzando le casette con le scatole delle scarpe, le finestre intagliate, le persiane colorate, i vetri di carta trasparente, i balconcini fatti con gli stuzzicadenti, i tetti con le cortecce del bosco. E poi il laghetto, il mulino a vento, il pozzo con carrucola e cordicella. Infine la capanna, come quella disegnata dai bambini, con tanto di mangiatoia e fieno vero. Questo presepe mi ha accompagnato per un’intera vita. E’ stato il presepe dei miei due figli ricreando ogni volta il mondo incantato della mia infanzia, la magia dell’attesa, il ricordo struggente di quando la mamma lo allestiva andandosi a procurare il muschio fresco e profumato delle nostre montagne.

Allora i regali li portava il Bambin Gesù, che infatti veniva rigorosamente messo nella culla solo il mattino di Natale. Un gesto simbolico al quale non ho mai rinunciato. Una tradizione che si è interrotta qualche anno fa quando i miei due figli sono usciti di casa con i rispettivi compagni. Eravamo tutti troppo grandi, troppo disincantati per far rivivere il presepe che diventa magico solo attraverso gli occhi dell’infanzia. Ma quest’anno la favola ricomincia: questo Natale infatti ci sono i miei due primi nipotini, Tito e Siro, di un anno appena.

martedì 7 dicembre 2010

Il cavallo rosso 2

di alberto

Avevo cominciato pensando a un commento, poi mi è scappata la mano, ed ecco, in flagrante violazione delle regole che ci siamo dati, un contro-post.
Come da formale promessa, mi sono messo a leggere il libro. Non l'ho comprato: in una casa un po' troppo su misura come la mia, per ogni libro che entra occorre scartarne uno in dotazione.
L'ho preso in prestito alla civica biblioteca, e c'è voluto qualche tempo: hanno tentato di rifilarmi il solo secondo volume; dopo qualche altro giorno mi hanno consegnato l'intero malloppo.
forse ho cominciato a leggerlo un po' prevenuto, per le considerazioni di Umberto e quelle di Dario, fatto sta che a quindici giorni dall'inizio mi sono trascinato fino a pagina 200 sulle 1200 totali e ho deciso che tante bastano: lo restituirò senza averlo finito. una libertà che mi concedo in questa stagione della vita, dopo aver compiuto i settant'anni.
Mi sono chiesto se ad irritarmi fosse la paolottitudine, ma l'ho escluso risolutamente, grazie al fatto che conosco e stimo una certo numero di paolotti e mi sembrerebbe leggermente razzista farne loro una colpa.
Mentre ci rimuginavo sopra, mi tornava in mente con insistenza la prima occupazione della facoltà di architettura, una anticipazione del '68 che sarebbe arrivato cinque anni più tardi. Il casus belli fu la sede milanese degli uffici della Snia Viscosa.
Si narra che il presidente del gruppo, Franco Marinotti, avesse affidato l'incarico al nostro professore di composizione architettonica, dandogli la seguente, stringente, indicazione progettuale: mi... me piasi Paladio. La risposta fu un edificio con colonne ioniche, doriche e corinzie che divenne il parafulmine dei nostri ardori e delle nostre purezze moderniste... sembra incredibile, è passato quasi mezzo secolo.
Ecco, sono giunto alla conclusione che quello che non sopporto non è il contenuto, ma la forma reazionaria! Mi sembra incredibile che un uomo del nostro tempo scelga di esprimersi con un linguaggio in stile, come uno di quei mobili chippendale che si facevano in brianza cinquant'anni fa, come se fossero passati invano Joyce, Faulkner, Dos Passos... E' ben vero che uno può scegliere di esprimersi come gli pare, ma c'è anche la legittima difesa.

????

Diamogli una risposta autorevole, questa!

venerdì 26 novembre 2010

Avvolta dalla luna

A voi tutti un racconto che parla della città in cui viviamo, con un intreccio di microstorie realmente accadute e ovviamente ... liberamente trascritte, che spero possa allietare uno spicchio del vostro tempo. http://www.arengario.net/anto/anto34.html
un caro saluto a tutti
Umberto

sabato 23 ottobre 2010

Con Novaluna ad Alzano Lombardo

Gauss

Quanti paesi, villaggi, città abbiamo lambito o attraversato senza chiederci se meritassero una sosta, senza pensare a quel che di prezioso potessero esibire e talvolta nascondere? Molto tempo fa, quando imboccavo la Val Seriana in direzione di Clusone e della Presolana, devo essere
passato più volte per Alzano Lombardo, sempre nella più serena ignoranza che lì, proprio in quella sconosciuta località della bergamasca, c’era un tesoro da scoprire.
Lode e riconoscenza a Novaluna se, meglio tardi che mai, abbiamo potuto sapere, vedere e ammirare (l’elogio va rivolto principalmente a Giorgio Crippa e a Edoardo Marino che dell’escursione ad Alzano sono stati gli ispiratori e gli organizzatori).

Alzano Lombardo deve il suo nome ad un podere assegnato in epoca romana alla Gens Alicia. E’ un borgo di gente operosa che fin dal cinquecento, sotto il governo della Serenissima, ha conosciuto periodi di grande prosperità derivante dallo sviluppo di attività artigianali e commerciali connesse soprattutto alla lavorazione della lana, cui si aggiunsero nel settecento quella della fabbricazione della carta (le Cartiere Pigna) e nell'ottocento quella della produzione di cemento (la prima fabbrica dell’Italcementi in Italia).

E’ proprio lì, alla vecchia Italcementi, che ci siamo dati appuntamento, non al cementificio che, ormai del tutto dismesso e abbandonato, si presenta come un grigio imponente rudere industriale, ma all’edificio che lo fronteggia, originariamente destinato alla progettazione e alla costruzione del macchinario per cementifici di cui l’Italcementi era un produttore d’avanguardia. Dopo lunghe peripezie per raggiungerla (il Comune di Alzano non la degna di segnalazioni stradali, forse per non deviare il forestiero da altre illustri e meno controverse mete cittadine), abbiamo parcheggiato al piede di una struttura dall’aspetto nobile e austero, perfettamente e sapientemente restaurata.
Al suo interno, le sue più che centenarie mura ospitano l’ALT (Arte Lavoro Territorio), una mostra di circa 250 opere di proprietà di Tullio Leggeri, collezionista d’arte contemporanea e mecenate di artisti contemporanei oltre che importante imprenditore nel settore delle costruzioni e di Elena Matous Radici, la vedova di Fausto Radici, il compianto campione della valanga azzurra di sci, oltre che giovane rampollo di una dinastia industriale, amico di Leggeri e come lui collezionista d’arte d’avanguardia.
Le opere, foto, dipinti, installazioni, sculture, video, animazioni, sonorità, oggetti decontestualizzati, molti di ragguardevoli dimensioni, sono collocati in uno spazio suggestivo, marcato da poderosi pilastri reggenti ampie volte a botte, qua e là bucate da oblò-lucernari che assicurano all’ambiente una luce soffusa ed omogenea, di cui sempre dovrebbero giovarsi le pinacoteche e i musei (la tenebra perforata dai fasci di luce dei faretti si addice all’esibizione del trapezista nel circo, o del prestigiatore sul palco, non all’esposizione e alla comprensione dell’opera d’arte).
Abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di essere accompagnati nel lungo itinerario attraverso questa vasta rassegna espressiva dell’arte del nostro tempo dallo stesso conservatore dell’ALT, una guida colta e riflessiva, libera da quegli atteggiamenti declamatori cui talvolta indulgono le guide dei musei fino ad assomigliare agli imbonitori del mercato del giovedì. Ha assolto al non facile compito di introdurci con essenziali riferimenti storici e misurati commenti critici alla conoscenza di un’arte fortemente concettuale, allusiva e provocatoria, volutamente scandalosa, più scostante che accattivante, talvolta inquietante e addirittura irritante. Del resto, oggi si ritiene che sia proprio questa la missione dell’artista, spiazzare, demolire le consuetudini, violare i tabù, proporre nuove e originali visioni del mondo, suscitare perplessità e accendere controversie, ci penserà poi il tempo a separare il grano dal loglio.
La mia opera preferita? Una estroflessione di Piero Manzoni, un gioco d’ombra e di luce ottenuto con un lino pieghettato e irrigidito col caolino, un non-dipinto di pura e serena eleganza (mi pento di non averlo fotografato).

Al termine di una visita così impegnativa e coinvolgente ci aspettava, e anche ci spettava, il conforto di una pausa conviviale, che abbiamo lasciato scorrere alla Taverna San Martino, tra muri in pietra levigata del fiume Serio risalenti al ‘500, in vociante conversazione e vorace consumazione del tris di primi e della tagliata di manzo contornata dalle patate al forno, degno preludio al tripudio barocco della Basilica di San Martino, la nostra meta pomeridiana.

Vista da fuori, ha l’aspetto di una bella costruzione del ‘600, di quando le facciate delle chiese reggevano e vincevano il confronto, per imponenza e decoro, con quelle delle residenze dei principi. Tanto potevano osare le Fabbricerie ecclesiastiche perché disponevano di ingenti apporti di capitali, che nel caso della basilica di Alzano provenivano da una eredità di 70.000 scudi (equivalenti a 45 miliardi pre-euro) legata dal ricco mercante alzanese Nicolò Valle al rifacimento in versione monumentale della preesistente chiesa del ‘400.
Non si può negare che gli eredi suoi concittadini ne abbiano fatto buon uso.

E’ soprattutto all’interno che la chiesa trionfa nella sua stupefacente fastosità. Chi andasse in cerca di una dimostrazione sintetica, di un compendio delle connotazioni che definiscono lo stile barocco si soffermi davanti al pulpito settecentesco che domina al centro della navata principale (progetto di Giovan Battista Caniana, sculture di Andrea Fantoni, intarsi di Gian Giacomo Manni). Non manca nulla, e tutto è proposto ad altissimo livello di esecuzione, l’andamento sinuoso, l’orrore delle linee rette e il rifiuto delle forme geometriche, l’estro, la complessità della composizione, la bizzarria, il capriccio, la drammaticità, il gioco delle apparenze, il grottesco, l’esuberanza decorativa, il culto della retorica, la teatralità, gli “effetti speciali”, come si direbbe oggi. E, sopra tutto, c’è la straordinaria maestria della fattura. Nel suo bell’accento bergamasco, la nostra simpatica guida si è scusata in anticipo del tono catechistico con cui avrebbe illustrato questo capolavoro: “Non posso fare altrimenti, il Barocco è arte che parla e che educa, ogni particolare è un brano di un racconto che ricorda le scritture e ammonisce a seguirne l’insegnamento, una narrazione comprensibile e ammaliante sia per i dotti che per gli analfabeti”.






















Al centro dell’universo non c’è più l’uomo della Rinascenza, gli uomini della Controriforma sono i quattro telamoni del pulpito (Le quattro età dell'uomo), nobili figure relegate a un ruolo servile. Invece di stare sul piedistallo, sono le loro schiene piegate e le loro membra contratte a far da piedistallo alla coppa della Sapienza che la predicazione somministra ai fedeli. La gloria del protagonista spetta alla sommità del pulpito, dove la parola divina sembra esplodere fuori dal capocielo in uno sfolgorio di azzurro e oro. Il nesso fra Barocco e Controriforma viene oggi ritenuto meno stretto che in passato, ma non c'è dubbio che questo pulpito è un meraviglioso strumento di persuasione ideologica al servizio di quella “rivoluzione culturale” che fu la Controriforma cattolica.

La planimetria della basilica presenta otto cappelle laterali dedicate a uno o più santi di diffusa venerazione popolare. La nostra guida ha opportunamente fermato l'attenzione sulla più importante e significativa, la Cappella del Rosario arricchita da uno splendido paliotto d’altare con la Natività della Vergine, opera di Andrea Fantoni.
Alle pareti un ciclo pittorico a soggetto biblico composto da tele di enormi dimensioni (la cappella è alta ventisei metri) fra le quali un olimpico Giacobbe che incontra Lia e Rachele di Andrea Appiani e una commovente Agar del Piccio.

Le meraviglie non sono finite, anzi. La Basilica di San Martino è impreziosita da tre annesse sacrestie, anch’esse secentesche, costruite come locali rispettivamente di preparazione del clero alle funzioni ecclesiali, di preghiera e di riunione. Vi sono raccolti i più stupendi capolavori di ebanisteria che sia dato vedere, dovuti alla maestria di due famiglie di intarsiatori e di intagliatori della bergamasca, i Fantoni di Rovetta e i Caniana di Romano Lombardo.

La prima sacrestia è riccamente arredata con mobili in legno di noce che imitano la facciata di una Chiesa. Sui contrapposti armadi centrali, nelle cui inaspettate profondità sono custoditi i paramenti e gli arredi del culto, sono collocate le statue lignee con San Martino e San Pietro, mentre su quelli laterali sono rappresentati i Dottori della Chiesa Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Gregorio Magno e San Gerolamo. Bellissima e inquietante la scultura barocca della Morte trionfatrice sui poteri del mondo (Papato, Impero e Sinagoga).


Sopra la porta d’ingresso è posto un busto raffigurante Nicolò Valle, che come benefattore si deve contentare dell’onore della sacrestia, quello della chiesa essendo concesso solo ai santi.

La seconda sacrestia, cui erano ammessi esclusivamente i sacerdoti per celebrare i riti preparatori alla liturgia, è di stupefacente complessità decorativa. I banconi appoggiati alle sue quattro pareti sono sormontati da un Martirium elogium, una elaboratissima cimasa lignea con 32 gruppi scultorei a tutto tondo raffiguranti i santi martiri della fede. Sono miniature di personaggi che raccontano con straordinaria potenza espressiva la leggenda per la quale sono ricordati e venerati.

C’è San Bartolomeo che ostenta la sua pelle, San Giovanni Decollato che tiene in mano la sua stessa testa, San Pietro da Verona con la roncola conficcata in cranio, San Giovanni da Nepomuk (o Nepomuceno, ad Alzano familiarmente detto “Né più né meno”) che viene scaraventato giù da un ponte nella Moldava, e così via.

La terza sacrestia, sede delle adunanze della Collegiata sacerdotale locale, è arredata da un coro di stalli lignei ad opera dei Caniana. Qui le decorazioni sono di intonazione laica, soggetti naturalistici, motivi vegetali intrecciati, frutta e verzure, giochi di fanciulli, paesaggi idilliaci.

Ai lati della porta d’ingresso due stanzini foderati di pregiata boiserie e chiusi da pesanti porte di noce erano adibiti a confessionale. La perfetta insonorizzazione consentiva ai confessori di parlare ad alta voce senza essere uditi all'esterno e poter così assolvere dai peccati anche i penitenti di debole udito.
Gauss
N.B. Cliccare sulle foto per ingrandirle.

domenica 17 ottobre 2010

I Monti e Tognetti di una via di Monza

di Dario Chiarino

La via Monti e Tognetti con il suo ex casello daziario è una delle vecchie vie del quartiere di San Biagio, ma quanti monzesi sanno chi erano Monti e Tognetti?
Il 22 ottobre 1867, due barili di polvere da sparo nelle fogne della caserma Serristori, presso il Vaticano, esplodevano uccidendo ventitre zuavi francesi e quattro popolani romani.
Monti e Tognetti furono giudicati responsabili di quello che voleva essere un atto insurrezionale in una Roma in stato di guerra per la minaccia incombente di una spedizione militare di volontari guidata da Garibaldi.
Furono condannati a morte e ghigliottinati.
Qualche anno fa nacque sul Corriere della Sera una polemica su tale avvenimento
Il ben noto scrittore cattolico Vittorio Messeri giudicò - in polemica con Indro Montanelli per quanto apparso in una "stanza" sul Corsera - giuste e legittime la sentenza di condanna a morte e la conseguente decapitazione dei due attentatori, sostenendo che:

"Malgrado nessun giurista, in tutta Europa,avesse alcunché da obiettare, viste anche le leggi di guerra, Pio IX era propenso a concedere la grazia. Ne fu impedito dalla dura protesta dei francesi e dei congiunti delle innocenti vittime romane. Niente di questo sta nella dimenticata, ma a lungo popolarissima, ode di Carducci per i martiri Monti e Tognetti. Poiché questi sono i fatti, sorprende di vedere pubblicata sul Corriere una lettera ove tal Donato Mutarelli parla di Monti e Tognetti come di misere e incolpevoli vittime di un uso efferato della ghigliottina, di ragazzi di vent'anni sacrificati dalla mostruosa ragion di stato vaticana. Sembra proprio che quando si tratta del beato Pio IX, la verità sia un fastidioso accessorio, ciò che importa essendo lo schema ideologico."




Questa è stata la risposta di Montanelli:

"I fatti sul piano storico sono questi, anche se mi permetto di avanzare qualche riserva sulla quiescenza dei condannati alla sentenza di morte, nota essendo e collaudata nei secoli la spicciavità con cui la giustizia e la polizia papaline strappavano ai morituri il ripudio di ciò che avevano detto o fatto.
Due obiezioni ho però da muovere al sig. Messori. La prima è il suo linguaggio arrogante e altezzoso. La seconda è la corrività con cui si sottrae alla notazione di un piccolo particolare. È verissimo infatti che qualsiasi stato di guerra, dopo un attentato dei giovanissimi Monti e Tognetti, si sarebbe comportato allo stesso modo. Ma il fatto è che quello del Papa non era un «qualsiasi stato».
Era lo Stato di una Chiesa secondo la quale la vita è un dono di Dio, che solo Dio ha il potere di concedere e di togliere. È su questo principio che si basa - e si giustifica - la grande protesta esplosa fra ieri e oggi, contro l'esecuzione del povero Rocco Bernabei. (*)
E quindi questo non mi sembra il momento più adatto per rivangare certi precedenti del potere papalino dai cui impegni temporali i cattolici italiani dovrebbero essere - come molti di loro sono - grati allo Stato di averli liberati. Si, «liberati». Chi scrive è un laico che non ha mai fatto professione di anticlericalismo. Vorremmo che la Chiesa ci aiutasse a non far rinascere questa mala pianta che per un secolo e mezzo ha avvelenato e reso monca la vita di questo povero Paese. Purtroppo alcuni segni ci inducono a dubitare che questa sia la strada ch'essa intenda battere"


Sono andato a ripescare la "dimenticata ma a lungo popolarissima" ode carducciana ricordata dal Messori e per chi volesse conoscerla ne trascrivo la prima parte (che basta e avanza...).

Torpido fra la nebbia ed increscioso/ Esce su Roma il giorno: / Fiochi i suon de la vita, un pauroso / Silenzio è d'ogn'intorno.
Novembre sta del Vatican su gli orti/ Come di piombo un velo: / Senza canti gli augei da' tronchi morti / Fuggon pe 'l morto cielo.
Fioccano d'un cader lento le fronde/ Gialle, cineree, bianche; / E sotto il fioccar tristo che le asconde/ Paion di vita stanche
Fin quelle, che d'etadi e genti sparte/ Mirâr tanta ruina/ In calma gioventú, forme de l'arte/ Argolica e latina.
Il gran prete quel dí svegliossi allegro,/ Guardò pe' vaticani / vetri dorati il cielo umido e negro, / E si fregò le mani.
Natura par che di deforme orrore / Tremi innanzi a la morte: / Ei sente de le piume anco il tepore / E dice - Ecco, io son forte.
Antecessor mio santo, anni parecchi/ Corser da la tua gesta: / A te, Piero, bastarono gli orecchi; / Io taglierò la testa.
A questa volta son con noi le squadre, / Né Gesú ci scompiglia: / Egli è in collegio al Sacro Cuore, e il padre / Curci lo tiene in briglia.
Un forte vecchio io son; l'ardor de i belli / Anni in cuor mi ritrovo: / La scure che aprí 'l cielo al Locatelli / Arrotatela a novo.
Sottil, lucida, acuta, in alto splenda/ Ella come un'idea: / Bello il patibol sia: l'oro si spenda/ Che mandò il Menabrea.
I francesi, posato il Maometto/ Del Voltèr da l'un canto, / Diano una man, per compiere il gibetto, / Al tribunal mio santo.
Si esponga il sacramento a San Niccola/ Con le indulgenze usate, / Ed in faccia a l'Italia mia figliuola / Due teste insanguinate -.
.....................................................................................................
(*) - Rocco è stato un cittadino statunitense di origini italiane, condannato alla pene di morte per omicidio. Il suo caso ha suscitato, nei giorni della polemica Messori - Montanelli vivaci reazioni in ordine alla dubitata certezza della sua colpevolezza.

sabato 2 ottobre 2010

Il Cavallo Rosso

di umberto de pace

Cari amici di Novaluna,
vi segnalo il link di un mio commento su il romanzo "il Cavallo Rosso" dello scrittore besanese Eugenio Corti, appena pubblicato su L'Arengario. In realtà era una lettera inviata a "il Cittadino" e non pubblicata, suppongo perchè non in linea con il loro pensiero, come normalmente capita. A me piacerebbe invece confrontarmi serenamente su un testo, ritenuto degno di un premio Nobel alla letteratura, che mi ha lasciato non poche perplessità dopo averlo letto. LETTO? Certo! Sembra quasi di dire una bestialità di fronte ai non pochi che vorrebbero affibiare un Nobel per puro spirito campanilistico o lobbistico.
Non aggiungo altro e vi invito alla lettura non solo del mio commento ma sopratutto del libro "il Cavallo Rosso" per poi confrontarci, a ragion veduta, sul testo e l'autore.
http://arengario.net/citt/citt345.html

lunedì 27 settembre 2010

2010: annata da incorniciare

di giorgio casera


Porcino

Le annate memorabili per il vino si definiscono annate da incorniciare!
Non si sa ancora come sarà la produzione per i vini quest’anno. Da quanto si legge le premesse sono buone, ma ora siamo nella fase forse più critica, quella della vendemmia. Vedremo, tra un mese si potranno tirare le somme.
Quello che si può già dire invece è che per i funghi è andata alla grande, in quantità e qualità.
Nel paese dove ho trascorso l'estate, nel Basso Agordino, tra ultimi giorni di agosto e primi di settembre, gli amici mi avevano raccontato di raccolte all’altezza delle migliori tradizioni. Come poi mi hanno ripetuto gli amici di Monza che frequentano Valtellina e Lecchese. Non so di altre zone (Trentino etc) ma sono sicuro che è andata bene anche là. Come dicevo, nel mio paesello c’è stata abbondanza, ma, almeno finora, selettiva.

Boletus luridus

Nella hit parade metterei naturalmente i porcini (boletus edulis, il più ricercato), le mazze di tamburo, i diffusi laricini e i porcini “mat”(boletus luridus); non sono mancati peraltro funghi di specie meno diffuse ma altamente apprezzati dai gourmet, come il coprinus comatus. Assente, almeno finora, il secondo fungo più ricercato nella zona, il gallinaccio (cantharellus cibarius), ma per questo, come per altri mancanti all’appello, c’è ancora un mese abbondante di tempo. Diamogli ancora una chance!

Coprinus comatus

martedì 6 luglio 2010

in barca

di alberto

Con Sandra, Dida e Aldo, i miei fratelli, e la nipote Paolina, oltre a qualche occasionale infiltrato, abbiamo da qualche anno l'abitudine di ritagliarci una settimana per fare un trekking da qualche parte. L'anno scorso invece abbiamo affittato una barca e ci siamo fatti un bellissimo giro per le isole pontine. quest'anno abbiamo ripetuto l'esperimento nell'arcipelago toscano.
Lo skipper, Michele Isman, oltre ad essere un amico di famiglia, è formidabile, non ha alcuna parentela con quei nazisti dell'Illinois che hanno fatto la scuola di vela a Caprera e si ritengono in dovere di rivalersi delle angherie subite sottoponendo ad analoghe sevizie i loro equipaggi. Michele al contrario è di carattere dolce e non si infuria mai, anche in presenza di una ciurma di infingardi come la nostra. Appena possibile si naviga a vela, sennò ci si rassegna al motore. Si fanno bagni magnifici dalla mattina presto fino al tramonto, dovunque ci venga la voglia. La navigazione si arricchisce di incontri emozionanti: l'anno passato abbiamo pescato uno splendido tonno e un'aguglia imperiale, questa volta una enorme lampuga...
abbiamo, naturalmente, si dice per dire: la operazione di recupero di pesci di queste dimensioni non è una attività per mollaccioni di città come noi. Peggio, succede che tifiamo per il pesce, salvo rassegnarci – e leccarci i baffi – a cose fatte. Se possibile ancora più emozionanti, l'anno scorso l'incontro con un paio di delfini, quest'anno con una intera tribù che a lungo ha giocato con noi.
non mi è riuscito di caricare il video direttamente, ma lo potete trovare qui:
http://www.facebook.com/video/video.php?v=1466313616123&oid=62768372400