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venerdì 25 marzo 2011

Requiem per tre faggi

di alberto


 La domanda è: quanto è lecito dispiacersi per la morte di un albero? Tanto più se gli alberi sono tre.
Avete presente il pratone della Villa Reale, quello dove in giugno fanno i fuochi artificiali? Se guardate dal salone grande della Villa, di fronte vi trovate due belle querce, un po' segnate dagli anni, ma che fanno sempre la loro figura. Poi, volgendosi appena a sinistra, il cannocchiale grande: oggi inquadra una palazzina che, grazie a google maps, senza nemmeno alzare il sedere dalla poltrona, si scopre trattarsi della sede di una ditta di ricambi per carrozzerie al civico 168 di via Lecco. In attesa che crescano gli alberelli che dovrebbero chiudere lo sfondo; io ci avrei piantato anche qualche pioppo a crescita molto rapida, salvo toglierli una volta cresciuti gli alberi più lenti. Più a sinistra ancora si vede un grande faggio pendulo, anzi, a guardar bene, sono una decina di faggi penduli: tutti insieme simulano la chioma che aveva l'unico maestoso albero dello stesso tipo che esisteva ai tempi miei, e sotto il quale si poteva giocare per pomeriggi interi.
All'estrema sinistra del prato c'era uno straordinario gruppo di tre faggi rossi, piantati un po' troppo vicini tra loro. Crescendo fino a diventare giganteschi esemplari adulti, avevano dato luogo ad una chioma unica, avendo ognuno rinunciato a sviluppare rami nella direzione degli altri due. Perché ne parlo al passato pur essendo ancora apparentemente al loro posto? Perché, ahimè, uno dei tre si è reso defunto, una specie di infarto. Me ne sono accorto lo scorso autunno, quando le foglie, invece di appassire e cascare una alla volta come sempre, si sono come contratte, rimpicciolite, e seccate tutte insieme. E anche gli altri due stanno assai poco bene. Qualche giorno fa, passeggiando come il solito da quelle parti, ci ho trovato un giovane agronomo, che non solo ha confermato il mio referto autoptico, ma mi ha informato sul pessimo stato di salute dei due alberi superstiti: mi ha mostrato il tracciato di una specie di elettrocardiogramma, non lo sapevo, ma si eseguono prove penetrometriche come quelle per verificare la portanza dei terreni: in un albero sano il tracciato è una spezzata in una zona intermedia della strisciolina di carta; in un albero malato la spezzata è tutta nella parte inferiore, verso lo zero: l'ago cioè non incontra resistenza alcuna alla penetrazione. Gli ho detto che per me era un grande dispiacere, come la scomparsa di una persona cara. Mi ha risposto dicendomi di non bestemmiare, che gli alberi non sono persone e che la pietà bisogna riservarla agli umani. Sul momento mi sembrava mi avesse convinto, ma ripensandoci non sono più tanto sicuro. In forme diverse ci si affeziona moltissimo agli animali, perché allora non anche alle piante?
per le foto ringrazio la mia sorellina Dida Paggi

venerdì 18 marzo 2011

Lode a Vedano (in Musica)

di giorgio casera

Da sempre sono attento ai programmi culturali organizzati dall’amministrazione comunale e da circoli culturali di Vedano, sia per la vicinanza, e quindi la comodità di partecipazione, sia per l’obiettivo interesse che suscitano. Per quanto Vedano sia un comune molto piccolo, riesce ad offrire, di volta in volta, del buon teatro, qualche interessante proiezione cinematografica, e soprattutto della buona musica: non soltanto perché inserita in programmi “intercomunali” come Brianza Classica o Brianza Jazz, ma anche perché offre tutti gli anni un suo autonomo programma di concerti di classica.
Caratteristica principale di questi programmi è la scelta di solisti o complessi giovani, all’inizio della carriera. Probabilmente è anche una questione di costi, ma poiché si tratta di artisti molto promettenti la qualità non ne risente. Questi giovani poi, freschi di studio al Conservatorio, hanno ben presenti la musica delle origini e nello stesso tempo sono molto attenti alle tendenze attuali.


Spirabilia Quintet

Così può capitare di ascoltare brani di compositori minori del Barocco così come le “contaminazioni” tra musica “colta” e le espressioni più “popolari” del ‘900, come jazz, tango e musica afro-caraibica. Sono stati proprio due complessi, esibitisi negli ultimi due concerti, ad esprimere queste interessanti contaminazioni. Il primo, lo Spirabilia Quintet, un complesso di fiati (flauto, oboe, clarinetto, fagotto e corno inglese), ha eseguito brani di Valerie Coleman (Afro-Cuban Concerto) e Paquito de Rivera (Aires Tropicales) (i titoli danno già un’idea dell’area musicale), due compositori viventi, l’una americana e l’altro cubano, che scrivono musica classica carica dei loro riferimenti culturali. Il “portavoce” del quintetto nella presentazione ha affermato che il loro obiettivo è quello di “confrontarsi con opere in particolare del Novecento e dell’Ottocento senza pregiudizi di stili, carattere e provenienza, guidati da un unico e puro criterio estetico”, miele per le orecchie degli ascoltatori. In linea con quanto dichiarato hanno anche eseguito la Suite dal Porgy and Bess di Gershwin, risultata molto originale e piacevole suonata da un quintetto di fiati.


Trio Ebano

Il secondo complesso, il Trio Ebano (pianoforte, violoncello e clarinetto), si presenta con le stesse credenziali: preparazione classica e ricerca dei lineamenti “etnici” nella musica del nostro tempo. Qui gli autori sono D. Schnyder (Blues for Schubert e A Friday night in August), svizzero presto trapiantato negli Usa, e ancora Paquito de Rivera (Danzon e Afro). Bravi i suonatori e godibilissimi i brani. Poi, quasi a scusarsi di aver interpretato degli autori “difficili”, hanno infilato una serie di esecuzioni basate del tango di Piazzolla (Le quattro stagioni, Oblivion, Libertango) che hanno entusiasmato il numeroso (bisogna dirlo!) pubblico presente. Il bis di prammatica è stata la classica Danza ungherese n. 2 di Brahms che ha vieppiù infiammato la platea (ma non ce n’era bisogno!).
E allora, peccato per gli assenti, e viva Vedano!

lunedì 7 marzo 2011

Salvatore Carrubba - L'Unità d'Italia capolavoro politico di Camillo Benso di Cavour

Gauss
Sala piena al Binario 7 per l’incontro di giovedì scorso con Salvatore Carrubba, invitato da Novaluna per ricordare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Se ne è compiaciuto l’assessore Alfonso Di Lio nel suo indirizzo di saluto, lieto di constatare come dall’intesa collaborativa fra le associazioni culturali monzesi da lui fortemente incoraggiata sia nato un programma di eventi celebrativi che riscuotono l’interesse e la partecipazione della cittadinanza.
Salvatore Carrubba è uno studioso di economia e di politica, un intellettuale che non si sottrae all’assunzione di importanti responsabilità amministrative, gestionali, politiche. E’ stato fra l’altro Direttore de Il Sole-24 Ore e Assessore alla Cultura del Comune di Milano. Attualmente è Presidente dell’Accademia di Brera.
L’eloquio di Carrubba è chiaro ed elegante, privo di enfasi retorica. Inizia osservando che oggi l’unificazione degli Stati Italiani, che per secoli è stata evocata come un’utopia e ha dato luogo alla creazione di uno dei pochi Stati liberali e democratici del tempo, viene sottoposta ad un processo di revisione critica, da alcuni anche di svilimento e di dileggio. Il Risorgimento, come la Rivoluzione francese, come i conflitti nazionali, religiosi e dinastici in Gran Bretagna, come tutti i passaggi cruciali della storia dei popoli non è stato esente da fatti dolorosi e delittuosi, che tuttavia non impediscono di riconoscerlo e onorarlo come la vicenda fondante dell’Italia moderna. Non va dimenticato che, in alternativa al Regno unitario di Vittorio Emanuele II, il destino politico dei territori e delle popolazioni italiane sarebbe stato, nel migliore dei casi, la confluenza in una federazione di staterelli sotto l’egida del Papato, cioè di una delle monarchie più autoritarie e reazionarie, nel peggiore di ritrovarsi propaggini periferiche delle potenze europee, il Piemonte un satellite della Francia, la Sicilia e il Sud una sorta di grande Gibilterra al servizio dell’Inghilterra, il Lombardo-Veneto una provincia austro-tedesca.
Carrubba, liberale per formazione e per convinzione, considera che il vero artefice di quell’evento epocale, da molti definito un “capolavoro”, che fu l’unificazione dell’Italia in un Regno di stampo moderno, liberale e democratico, sia stato Camillo Benso di Cavour, per la cui figura coltiva ammirazione di politico e interesse di studioso.
Di famiglia ricca e aristocratica, il giovane Cavour è una “testa calda”, animato da propositi così radicalmente riformisti da farlo pericolosamente avvicinare ai movimenti rivoluzionari. Lunghi e ripetuti viaggi in Francia e in Inghilterra provocano in lui un profondo cambiamento che lo porta ad aborrire la violenza rivoluzionaria e a farsi paladino di un liberalismo conservatore in politica, progressista e riformatore in economia, cui rimarrà fedele per tutta la vita. Una virata politica senza alcuna venatura di cinismo opportunistico, sostenuta invece da un solido sistema di valori, da una visione del mondo ispirata ad ideali di libertà. Carrubba ricorda in proposito che Gramsci riconosce in Cavour un conservatore molto più autentico e coerente di Giolitti.
Prima di entrare in politica (allora non si “scendeva” in politica) Cavour si afferma come importante e coraggioso imprenditore. Con robusti investimenti in macchine agricole e moderni metodi di concimazione incrementa la produzione delle sue tenute, fa fortuna con il commercio delle derrate alimentari, partecipa alla costituzione della Società dei molini di Collegno, fonda la Banca di Torino.
Trentasettenne, viene eletto alla Camera dei deputati del Regno di Sardegna e parte da lì la sua straordinaria vicenda politica che si sviluppa in poco più di un decennio, fino al 1861 quando muore da Presidente del Consiglio del Regno d’Italia.
Cavour si accredita come il campione del liberalismo moderato, favorevole alla promulgazione dello Statuto, fautore della liberalizzazione degli scambi, abolitore dei dazi, promotore dell’incremento delle infrastrutture, principalmente delle ferrovie, avversario del fronte cattolico reazionario. Attivissimo, intelligente e volitivo, insieme idealista e diplomatico, molto saldo anche contro il Re che non vuole inimicarsi il Papa, si mette a capo della maggioranza anticlericale, e ottiene l’abolizione dei privilegi ecclesiastici. Il suo celebre motto “Libera Chiesa in libero Stato” esprime il primato della libertà di coscienza e condanna la sovrapposizione dei poteri civile e religioso. Sempre fedele a se stesso, si dichiara assertore della libertà di stampa nella convinzione che ogni tipo di censura produce pessimi effetti.
In rapida e avvincente successione Carrubba percorre le tappe, ora esaltanti ora tormentate, della vita politica di Cavour. Diventato Ministro dell’Agricoltura, della Marina e delle Finanze, non esita a stipulare un accordo (Connubbio) con il centrosinistra di Urbano Rattazzi per scalzare il governo reazionario di Massimo D’Azeglio. Costretto a dimettersi, nel 1852 parte per un viaggio di alcuni mesi a Londra e a Parigi, dove entra in rapporti di familiarità con Napoleone III, una vicinanza che si rivelerà determinante per i destini del Risorgimento italiano.
Al ritorno in Piemonte, riceve dal Re l’incarico di formare un nuovo Governo. Vincendo le resistenze di La Marmora e dello stesso Re decide di inviare un corpo di spedizione di 15000 uomini, al fianco di Francia e Gran Bretagna contro la Russia, alla Guerra di Crimea, dove i bersaglieri si distinguono nella battaglia della Cernaja. Siede con i vincitori al congresso di Parigi del 1856, dove non incassa risultati territoriali, ma ottiene di porre la “questione italiana”, la necessità di un riassetto politico che risponda alle speranze delle popolazioni.
L’intesa con Napoleone III lo porta all’accordo segreto di Plombières, con il quale patteggia la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia per la conquista del Lombardo-Veneto. Ne segue nel 1859 la II Guerra d’Indipendenza, Magenta, Solferino, San martino e l’armistizio di Villafranca, che Napoleone III conclude con Francesco Giuseppe concordando l’annessione al Regno di Sardegna della sola Lombardia. La notizia di questo accordo, stipulato a sua insaputa, scatena uno di proverbiali accessi ed eccessi d’ira di Cavour, che non risparmia la sua acrimonia nemmeno al Re e si dimette. Viene richiamato pochi mesi dopo, ottiene dalla Francia il via libera all’annessione dell’attuale Emilia Romagna e della Toscana e firma il trattato di cessione di Nizza e della Savoia.
Nei confronti di Garibaldi (come di Mazzini) nutre diffidenza e avversità , ostacola la spedizione dei Mille anche contro la volontà di Vittorio Emanuele, pronto a prendere tutto ciò che di buono poteva venire dall’impresa. Pur riconoscendo in Garibaldi un’icona risorgimentale, il progetto di unificazione dell’Italia del diplomatico sabaudo Cavour non può che scontrarsi con quello del rivoluzionario popolare Garibaldi. Di fronte al fatto compiuto Cavour aspetta però il momento propizio e pretende il plebiscito del 1960 che sancisce l’annessione immediata di Napoli e della Sicilia.
Il 17 marzo del 1861 il Parlamento italiano unitario decreta l’unificazione politica di gran parte della penisola proclamando per il Regno di Sardegna l’assunzione del nome di Regno d’Italia. Cavour muore dopo qualche mese, il 6 giugno del 1861.
L’attualità di Cavour, ci ricorda Carrubba, è quella di un politico rispettoso del Parlamento, capace di interpretare al meglio la tradizione liberal democratica e di creare uno Stato ammirato nel mondo per la modernità del suo ordinamento. E a suggello della sua relazione cita le parole dello storico Rosario Romeo: “ Il progetto politico istituzionale realizzato con lo Stato unitario fu più vicino a quello ideato da Cavour che a quello di qualunque altra forza che abbia partecipato al Risorgimento”.

Gauss

domenica 6 marzo 2011

In memoria di Primo

di alberto

Ci siamo.
Il libro in memoria di Primo Casalini è pronto.
Va in stampa i primi giorni della prossima settimana
e uscirà in tempo per il primo anniversario della sua scomparsa.
Senza false modestie ci sembra sia venuto molto bene.
Grazie al lavoro eccellente e prezioso
di Marta Viola e Susanna Canuti,
già autrici per noi della grafica de I fiori del Parco
che abbiamo pubblicato qualche anno fa,
avrà una veste molto elegante.
Come annunciato tempo fa
raccoglierà sia le Novellette degli odori che La grande bua.
Le prime riguardano una serie di racconti il cui filo conduttore è di natura olfattiva,
le seconde invece relative al tema della depressione,
che Primo ha conosciuto per un periodo della sua vita,
e che ha indagato con il consueto acume e sense of humour.

Il libretto, di centoventi pagine,
stampato in bianco e nero per esigenze economiche,
avrà un costo di 10 € a copia.
Vi avviseremo sulle modalità della presentazione.
Chi, oltre a quelli che già si sono messi in nota,
volesse prenotarne un certo numero di copie
è pregato di comunicarlo tempestivamente al nostro @ndirizzo:
info.novalunamonza@gmail.com
il nostro codice fiscale è 94575770154
il nostro conto presso la banca popolare di Sondrio,
via Galilei angolo Buonarroti ha il seguente
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mercoledì 9 febbraio 2011

GIOVANNI RAJBERTI
a centocinquant'anni dalla sua morte

di Dario


Giovanni Rajberti fu un medico nato a Milano nel 1805 e trapiantato a Monza dove morì centocinquant'anni fa, esattamente nell'anno della nascita dell'unità d'Italia. A lui è dedicata la via di Monza che da Via Lecco mena in Via Canova.

All'attività professionale il Rajberti unì una feconda attività letteraria che lo portò a frequentare diversi salotti della Milano dell'epoca fra i quali quello di casa Manzoni ciò che gli consentì di fare conoscenza e amicizia con diversi personaggi da Liszt a Rossini, da Balzac a Carlo Cattaneo.
Dotato di uno spiccato senso umoristico fu autore delle traslazioni in meneghino di alcune satire di Orazio e usò il dialetto milanese per le sue poesie che talvolta gli procurarono fastidi da parte della polizia.
Sembra che il tenore di certi suoi scritti fossero stati la causa del suo sofferto trasferimento dall'Ospedale Maggiore di Milano all'Ospedale Civico di Monza nel 1842.
Il suo animo irredentista esplose in occasione delle cinque giornate di Milano quando egli indirizzò ai milanesi una poesia che rappresentò una vera e propria invettiva nei confronti del governo asburgico.
A Monza il Rajberti scrisse le sue tre opere più importanti: Sul gatto con il sottotitolo Cenni fisiologico-morali (1845), L'arte di convitare (1851) e Il viaggio di un ignorante, ossia Ricetta per gli ipocondriaci (1857).
Io desidero soffermarmi soprattutto sull'opera che riguarda il gatto che io non esito a definire notevole non solo per l'abilità dell'autore nella descrizione minuziosa della fisiologia e del carattere dell'animale, ma anche per l'arguzia con cui il Rajberti, ogni qual volta si presenti l'occasione, esprime un commento morale, rilevando somiglianze o diversità tra l'oggetto scrutato e il mondo umano.

Un esempio dell'osservazione minuziosa della fisiologia si ha nella descrizione del gatto impegnato nella consumazione del suo pasto: "Quasi tutti gli altri possono mangiare con qualche disattenzione; ma egli, per la speciale conformazione della cavità orale, quando mangia ha necessariamente l'anima tutta intesa a quell'affare: essendoché nel moto alterno della masticazione, ad ogni aprir la mascella il cibo cadrebbe fuori, se di volta in volta non lo rattenesse con quei colpi misurati della testa che egli agita dal basso in alto."

Bello anche il capitolo dal titolo "Pericolo che corre sui tetti e sue cadute" che ricordo di aver letto da ragazzo su qualche antologia: "O no, non tremate mai per il gatto, poiché egli sa sempre quello che si fa, o sia che si aggiri tra i labirinti di un gran mucchio di legne o di vecchie masserizie accatastate sul solaio, o sia che passeggi filosoficamente sulle macerie o i rottami di un edificio smantellato, come già Caio Mario in Cartagine. Insomma non vi è piano ineguale rotto, fallace che lo riduca a periglio, perché egli gran maestro di cautele e di prudenza, va con piè leggero e sospeso, e se quella zampa esploratrice non sente sotto la dovuta resistenza, ei la ritira prima di affidarle il peso del corpo. Così noi uomini imparassimo da lui a non far passi falsi nel cammino della vita: quanti errori e pentimenti di meno!"

Il confronto che il Rajberti fa con il cane lo porta a conclusioni poco esaltanti nei confronti del gatto: "In casa il cane è tutto: custode, difensore, servitore, amico,: riceve cordialmente i famigliari, abbaia ai forestieri e ai pezzenti, s'affligge e perde l'appetito nelle assenze del padrone: alla di lui morte poco manca ch'ei non muoia di dolore (proprio quando gli eredi inconsolabili cominciano a rivivere la felicità), insomma è il vero disperato per eccesso di buon cuore. Ma il gatto oibò! egli non farebbe un passo fuori dalla porta per vedere passare un re o un papa, nè darebbe la coda di un sorcio per realizzare la repubblica di Platone. Se nella sua stessa contrada si facesse una guerra di sterminio, egli non si incomoderebbe neppure a sporgere il muso dal margine del tetto per vedere cosa succede. Se la famiglia cui appartiene muore tutta di contagio, egli non dormirà per questo un minuto di meno e se abbrucia la casa egli si ritirerà in quella che vien dopo a godere lo spettacolo da un abbaino. Oh che anima imperturbabile, oh che sistema ambulante di filosofia! Qual cosa di meglio insegnarono gli stoici che forse attinsero allo studio del gatto i migliori precetti della loro scuola? Io, che quando mi lascio tentare ad aprire alcun libro filosofico, di solito grido dopo due pagine «oh che bestia di filosofo!», ogni qual volta che penso alla virtù del gatto, esclamo «oh che filosofo di bestia!»
Dirà taluno che questa è filosofia d'indifferenza e d'egoismo. Ma cesserà forse perciò d'essere una filosofia, e molto diffusa e messa in credito?

Ed ecco la morale con cui i Rajberti chiude Sul gatto:
"Oh voi, che in amore, in amicizia, in letteratura, in morale, in qualunque umana cosa sapete variare a tempo e misura, notate bene queste parole, che voglio ripetervi in latino, perché vi servano da testo autorevole nei tanti bisogni di usarne. La fermezza e l'immobilità sono virtù delle montagne e l'ostinazione è il peggior vizio degli sciocchi, ma la brava gente è mutabile: Sapientis est mutare consilium. Replico dunque che oggi sono nella persuasione fermissima, inespugnabile, eterna che a noi convenga essere gatti: salvo decidere alla prima occasione se non torni meglio essere camaleonte o pappagallo, asino o bue, specialmente quando si tratti di bue grasso o di asino d'oro."

P.S.: Le fografie della gatta sono una gentile concessione del mio nipotino, padrone e...schiavo di Birba.



sabato 22 gennaio 2011

Testimonianze


Dopo due anni di lavoro, durante i quali ho raccolto alcune testimonianze di cittadini monzesi protagonisti del "grande esodo" dalle terre del confine orientale, nel secondo dopoguerra, è uscito in questi giorni nelle librerie un libro nel quale, queste testimonianze, sono pubblicate nella loro versione completa e integrale (fino ad oggi erano stati pubblicati degli stralci sul giornale on-line l'Arengario). Oltre alle testimonianze, nel libro, potrete trovare una parte storica in cui è riportata integralmente la relazione finale della Commissione storico-culturale italo-slovena, scaturita da un lungo lavoro di studio e confronto, protrattosi per sette anni dal 1993 al 2000, che ha visto impegnati storici e uomini di cultura di entrambi i paesi. Infine nella terza e ultima parte troverete un mio racconto liberamente tratto da una delle testimonianze raccolte.

Sono testimonianze che vanno lette come si legge un racconto: non sono articoli di giornale, non nascondono verità, non svelano l'ignoto, non supportano tesi o rivendicano ragioni, non lanciano accuse o assoluzioni; sono racconti di vita, di uomini e donne, che ci portano a rivivere per un attimo attraverso i loro ricordi, attraverso le loro storie personali, un pezzo della storia del nostro Paese e della nostra città. Raccontare la propria vita è come aprire la porta della propria casa, facendo entrare degli sconosciuti fra le pareti domestiche; è un segno di fiducia verso il mondo, una disponibilità al confronto, una speranza nel futuro. Spero infine che questo lavoro possa contribuire a far sì che il "grande esodo" e la tragedia delle foibe si affranchino dalle dispute ideologiche e diventino a pieno titolo parte della memoria storica condivisa.

Umberto De Pace

P.S.: avrò il piacere di presentare il libro:

- l'8 febbraio alla Sala Maddalena alle ore 21,oo insieme a Marco Cuzzi, ricercatore di storia contemporanea presso la Facoltà di Scienza Politiche dell'Università Statale di Milano ;

- il 10 febbraio al Liceo Zucchi alle ore 11,15 nell'ambito dei Memorandi Dies - percorso di formazione alla memoria condivisa aperto agli studenti della rete Licei Brianza e ai cittadini di Monza. Si svolgeranno proiezioni multimediali e letture sceniche delle testimonianze da parte degli studenti.



domenica 12 dicembre 2010

Il presepe

di Nella
Tra i ricordi della mia infanzia il più magico è legato al Natale. Abitavamo allora a Intra, sul Lago Maggiore. Eravamo in tre: io, la mamma e mio fratello. C’era la guerra e il papà, recatosi in Etiopia per ‘fondare’ assieme a tanti altri ‘le basi economiche dell’Impero’ era rimasto bloccato là e poi arruolato allo scoppio delle ostilità. Ci è rimasto sei anni, prigioniero degli inglesi. Malgrado le ristrettezze economiche, il razionamento del cibo, la presenza fisica della guerra con i tedeschi nel giardino di casa che sparavano ai partigiani nascosti nelle montagne al di là del fiume, e più tardi il mitico aereo ‘Pippo’ che sorvolava il lago diretto verso Milano, la mia è stata un’infanzia felice.
 Protetta e ovattata dall’amore di mia madre che in tutti quei lunghi anni non solo ci ha fatto anche da padre ma si industriava per arrotondare il nostro magro bilancio. Ricordo nei particolari la confezione dei ‘tronchetti’ che venivano poi venduti sulle bancarelle dell’Isola Bella. Si trattava di appiccicare su delle sezioni di tronco delle cartoline con vedute del lago e poi mimetizzare le giunture con alberi, cespugli e fiori realizzati con un impasto di diversi colori fatto di acqua e caolino. Era il nostro pongo ante-litteram e io e mio fratello ci divertivamo un sacco ad aiutare la mamma che , probabilmente, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Una roba terribilmente kitsch che a me però sembrava bellissima e che comunque andava a ruba. Per loro ho ritirato fuori dagli scatoloni tutti i miei tesori, ho fatto i necessari restauri e proprio ieri ho ricostruito con un pò di magone il mitico presepe, ripensando a mia madre che nella sua lettera di commiato si era raccomandata che parlassi di lei ai figli dei miei figli. Ho incominciato a mantenere la promessa perché Tito e Siro capiscano seppur così piccini che l’amore da cui sono circondati viene da lontano, che il filo non si è interrotto, che gli affetti veri non muoiono mai.


Ma il capolavoro della mamma è stato il presepe. Ci aveva lavorato di nascosto un’intera estate realizzando le casette con le scatole delle scarpe, le finestre intagliate, le persiane colorate, i vetri di carta trasparente, i balconcini fatti con gli stuzzicadenti, i tetti con le cortecce del bosco. E poi il laghetto, il mulino a vento, il pozzo con carrucola e cordicella. Infine la capanna, come quella disegnata dai bambini, con tanto di mangiatoia e fieno vero. Questo presepe mi ha accompagnato per un’intera vita. E’ stato il presepe dei miei due figli ricreando ogni volta il mondo incantato della mia infanzia, la magia dell’attesa, il ricordo struggente di quando la mamma lo allestiva andandosi a procurare il muschio fresco e profumato delle nostre montagne.

Allora i regali li portava il Bambin Gesù, che infatti veniva rigorosamente messo nella culla solo il mattino di Natale. Un gesto simbolico al quale non ho mai rinunciato. Una tradizione che si è interrotta qualche anno fa quando i miei due figli sono usciti di casa con i rispettivi compagni. Eravamo tutti troppo grandi, troppo disincantati per far rivivere il presepe che diventa magico solo attraverso gli occhi dell’infanzia. Ma quest’anno la favola ricomincia: questo Natale infatti ci sono i miei due primi nipotini, Tito e Siro, di un anno appena.

martedì 7 dicembre 2010

Il cavallo rosso 2

di alberto

Avevo cominciato pensando a un commento, poi mi è scappata la mano, ed ecco, in flagrante violazione delle regole che ci siamo dati, un contro-post.
Come da formale promessa, mi sono messo a leggere il libro. Non l'ho comprato: in una casa un po' troppo su misura come la mia, per ogni libro che entra occorre scartarne uno in dotazione.
L'ho preso in prestito alla civica biblioteca, e c'è voluto qualche tempo: hanno tentato di rifilarmi il solo secondo volume; dopo qualche altro giorno mi hanno consegnato l'intero malloppo.
forse ho cominciato a leggerlo un po' prevenuto, per le considerazioni di Umberto e quelle di Dario, fatto sta che a quindici giorni dall'inizio mi sono trascinato fino a pagina 200 sulle 1200 totali e ho deciso che tante bastano: lo restituirò senza averlo finito. una libertà che mi concedo in questa stagione della vita, dopo aver compiuto i settant'anni.
Mi sono chiesto se ad irritarmi fosse la paolottitudine, ma l'ho escluso risolutamente, grazie al fatto che conosco e stimo una certo numero di paolotti e mi sembrerebbe leggermente razzista farne loro una colpa.
Mentre ci rimuginavo sopra, mi tornava in mente con insistenza la prima occupazione della facoltà di architettura, una anticipazione del '68 che sarebbe arrivato cinque anni più tardi. Il casus belli fu la sede milanese degli uffici della Snia Viscosa.
Si narra che il presidente del gruppo, Franco Marinotti, avesse affidato l'incarico al nostro professore di composizione architettonica, dandogli la seguente, stringente, indicazione progettuale: mi... me piasi Paladio. La risposta fu un edificio con colonne ioniche, doriche e corinzie che divenne il parafulmine dei nostri ardori e delle nostre purezze moderniste... sembra incredibile, è passato quasi mezzo secolo.
Ecco, sono giunto alla conclusione che quello che non sopporto non è il contenuto, ma la forma reazionaria! Mi sembra incredibile che un uomo del nostro tempo scelga di esprimersi con un linguaggio in stile, come uno di quei mobili chippendale che si facevano in brianza cinquant'anni fa, come se fossero passati invano Joyce, Faulkner, Dos Passos... E' ben vero che uno può scegliere di esprimersi come gli pare, ma c'è anche la legittima difesa.

????

Diamogli una risposta autorevole, questa!

venerdì 26 novembre 2010

Avvolta dalla luna

A voi tutti un racconto che parla della città in cui viviamo, con un intreccio di microstorie realmente accadute e ovviamente ... liberamente trascritte, che spero possa allietare uno spicchio del vostro tempo. http://www.arengario.net/anto/anto34.html
un caro saluto a tutti
Umberto

sabato 23 ottobre 2010

Con Novaluna ad Alzano Lombardo

Gauss

Quanti paesi, villaggi, città abbiamo lambito o attraversato senza chiederci se meritassero una sosta, senza pensare a quel che di prezioso potessero esibire e talvolta nascondere? Molto tempo fa, quando imboccavo la Val Seriana in direzione di Clusone e della Presolana, devo essere
passato più volte per Alzano Lombardo, sempre nella più serena ignoranza che lì, proprio in quella sconosciuta località della bergamasca, c’era un tesoro da scoprire.
Lode e riconoscenza a Novaluna se, meglio tardi che mai, abbiamo potuto sapere, vedere e ammirare (l’elogio va rivolto principalmente a Giorgio Crippa e a Edoardo Marino che dell’escursione ad Alzano sono stati gli ispiratori e gli organizzatori).

Alzano Lombardo deve il suo nome ad un podere assegnato in epoca romana alla Gens Alicia. E’ un borgo di gente operosa che fin dal cinquecento, sotto il governo della Serenissima, ha conosciuto periodi di grande prosperità derivante dallo sviluppo di attività artigianali e commerciali connesse soprattutto alla lavorazione della lana, cui si aggiunsero nel settecento quella della fabbricazione della carta (le Cartiere Pigna) e nell'ottocento quella della produzione di cemento (la prima fabbrica dell’Italcementi in Italia).

E’ proprio lì, alla vecchia Italcementi, che ci siamo dati appuntamento, non al cementificio che, ormai del tutto dismesso e abbandonato, si presenta come un grigio imponente rudere industriale, ma all’edificio che lo fronteggia, originariamente destinato alla progettazione e alla costruzione del macchinario per cementifici di cui l’Italcementi era un produttore d’avanguardia. Dopo lunghe peripezie per raggiungerla (il Comune di Alzano non la degna di segnalazioni stradali, forse per non deviare il forestiero da altre illustri e meno controverse mete cittadine), abbiamo parcheggiato al piede di una struttura dall’aspetto nobile e austero, perfettamente e sapientemente restaurata.
Al suo interno, le sue più che centenarie mura ospitano l’ALT (Arte Lavoro Territorio), una mostra di circa 250 opere di proprietà di Tullio Leggeri, collezionista d’arte contemporanea e mecenate di artisti contemporanei oltre che importante imprenditore nel settore delle costruzioni e di Elena Matous Radici, la vedova di Fausto Radici, il compianto campione della valanga azzurra di sci, oltre che giovane rampollo di una dinastia industriale, amico di Leggeri e come lui collezionista d’arte d’avanguardia.
Le opere, foto, dipinti, installazioni, sculture, video, animazioni, sonorità, oggetti decontestualizzati, molti di ragguardevoli dimensioni, sono collocati in uno spazio suggestivo, marcato da poderosi pilastri reggenti ampie volte a botte, qua e là bucate da oblò-lucernari che assicurano all’ambiente una luce soffusa ed omogenea, di cui sempre dovrebbero giovarsi le pinacoteche e i musei (la tenebra perforata dai fasci di luce dei faretti si addice all’esibizione del trapezista nel circo, o del prestigiatore sul palco, non all’esposizione e alla comprensione dell’opera d’arte).
Abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di essere accompagnati nel lungo itinerario attraverso questa vasta rassegna espressiva dell’arte del nostro tempo dallo stesso conservatore dell’ALT, una guida colta e riflessiva, libera da quegli atteggiamenti declamatori cui talvolta indulgono le guide dei musei fino ad assomigliare agli imbonitori del mercato del giovedì. Ha assolto al non facile compito di introdurci con essenziali riferimenti storici e misurati commenti critici alla conoscenza di un’arte fortemente concettuale, allusiva e provocatoria, volutamente scandalosa, più scostante che accattivante, talvolta inquietante e addirittura irritante. Del resto, oggi si ritiene che sia proprio questa la missione dell’artista, spiazzare, demolire le consuetudini, violare i tabù, proporre nuove e originali visioni del mondo, suscitare perplessità e accendere controversie, ci penserà poi il tempo a separare il grano dal loglio.
La mia opera preferita? Una estroflessione di Piero Manzoni, un gioco d’ombra e di luce ottenuto con un lino pieghettato e irrigidito col caolino, un non-dipinto di pura e serena eleganza (mi pento di non averlo fotografato).

Al termine di una visita così impegnativa e coinvolgente ci aspettava, e anche ci spettava, il conforto di una pausa conviviale, che abbiamo lasciato scorrere alla Taverna San Martino, tra muri in pietra levigata del fiume Serio risalenti al ‘500, in vociante conversazione e vorace consumazione del tris di primi e della tagliata di manzo contornata dalle patate al forno, degno preludio al tripudio barocco della Basilica di San Martino, la nostra meta pomeridiana.

Vista da fuori, ha l’aspetto di una bella costruzione del ‘600, di quando le facciate delle chiese reggevano e vincevano il confronto, per imponenza e decoro, con quelle delle residenze dei principi. Tanto potevano osare le Fabbricerie ecclesiastiche perché disponevano di ingenti apporti di capitali, che nel caso della basilica di Alzano provenivano da una eredità di 70.000 scudi (equivalenti a 45 miliardi pre-euro) legata dal ricco mercante alzanese Nicolò Valle al rifacimento in versione monumentale della preesistente chiesa del ‘400.
Non si può negare che gli eredi suoi concittadini ne abbiano fatto buon uso.

E’ soprattutto all’interno che la chiesa trionfa nella sua stupefacente fastosità. Chi andasse in cerca di una dimostrazione sintetica, di un compendio delle connotazioni che definiscono lo stile barocco si soffermi davanti al pulpito settecentesco che domina al centro della navata principale (progetto di Giovan Battista Caniana, sculture di Andrea Fantoni, intarsi di Gian Giacomo Manni). Non manca nulla, e tutto è proposto ad altissimo livello di esecuzione, l’andamento sinuoso, l’orrore delle linee rette e il rifiuto delle forme geometriche, l’estro, la complessità della composizione, la bizzarria, il capriccio, la drammaticità, il gioco delle apparenze, il grottesco, l’esuberanza decorativa, il culto della retorica, la teatralità, gli “effetti speciali”, come si direbbe oggi. E, sopra tutto, c’è la straordinaria maestria della fattura. Nel suo bell’accento bergamasco, la nostra simpatica guida si è scusata in anticipo del tono catechistico con cui avrebbe illustrato questo capolavoro: “Non posso fare altrimenti, il Barocco è arte che parla e che educa, ogni particolare è un brano di un racconto che ricorda le scritture e ammonisce a seguirne l’insegnamento, una narrazione comprensibile e ammaliante sia per i dotti che per gli analfabeti”.






















Al centro dell’universo non c’è più l’uomo della Rinascenza, gli uomini della Controriforma sono i quattro telamoni del pulpito (Le quattro età dell'uomo), nobili figure relegate a un ruolo servile. Invece di stare sul piedistallo, sono le loro schiene piegate e le loro membra contratte a far da piedistallo alla coppa della Sapienza che la predicazione somministra ai fedeli. La gloria del protagonista spetta alla sommità del pulpito, dove la parola divina sembra esplodere fuori dal capocielo in uno sfolgorio di azzurro e oro. Il nesso fra Barocco e Controriforma viene oggi ritenuto meno stretto che in passato, ma non c'è dubbio che questo pulpito è un meraviglioso strumento di persuasione ideologica al servizio di quella “rivoluzione culturale” che fu la Controriforma cattolica.

La planimetria della basilica presenta otto cappelle laterali dedicate a uno o più santi di diffusa venerazione popolare. La nostra guida ha opportunamente fermato l'attenzione sulla più importante e significativa, la Cappella del Rosario arricchita da uno splendido paliotto d’altare con la Natività della Vergine, opera di Andrea Fantoni.
Alle pareti un ciclo pittorico a soggetto biblico composto da tele di enormi dimensioni (la cappella è alta ventisei metri) fra le quali un olimpico Giacobbe che incontra Lia e Rachele di Andrea Appiani e una commovente Agar del Piccio.

Le meraviglie non sono finite, anzi. La Basilica di San Martino è impreziosita da tre annesse sacrestie, anch’esse secentesche, costruite come locali rispettivamente di preparazione del clero alle funzioni ecclesiali, di preghiera e di riunione. Vi sono raccolti i più stupendi capolavori di ebanisteria che sia dato vedere, dovuti alla maestria di due famiglie di intarsiatori e di intagliatori della bergamasca, i Fantoni di Rovetta e i Caniana di Romano Lombardo.

La prima sacrestia è riccamente arredata con mobili in legno di noce che imitano la facciata di una Chiesa. Sui contrapposti armadi centrali, nelle cui inaspettate profondità sono custoditi i paramenti e gli arredi del culto, sono collocate le statue lignee con San Martino e San Pietro, mentre su quelli laterali sono rappresentati i Dottori della Chiesa Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Gregorio Magno e San Gerolamo. Bellissima e inquietante la scultura barocca della Morte trionfatrice sui poteri del mondo (Papato, Impero e Sinagoga).


Sopra la porta d’ingresso è posto un busto raffigurante Nicolò Valle, che come benefattore si deve contentare dell’onore della sacrestia, quello della chiesa essendo concesso solo ai santi.

La seconda sacrestia, cui erano ammessi esclusivamente i sacerdoti per celebrare i riti preparatori alla liturgia, è di stupefacente complessità decorativa. I banconi appoggiati alle sue quattro pareti sono sormontati da un Martirium elogium, una elaboratissima cimasa lignea con 32 gruppi scultorei a tutto tondo raffiguranti i santi martiri della fede. Sono miniature di personaggi che raccontano con straordinaria potenza espressiva la leggenda per la quale sono ricordati e venerati.

C’è San Bartolomeo che ostenta la sua pelle, San Giovanni Decollato che tiene in mano la sua stessa testa, San Pietro da Verona con la roncola conficcata in cranio, San Giovanni da Nepomuk (o Nepomuceno, ad Alzano familiarmente detto “Né più né meno”) che viene scaraventato giù da un ponte nella Moldava, e così via.

La terza sacrestia, sede delle adunanze della Collegiata sacerdotale locale, è arredata da un coro di stalli lignei ad opera dei Caniana. Qui le decorazioni sono di intonazione laica, soggetti naturalistici, motivi vegetali intrecciati, frutta e verzure, giochi di fanciulli, paesaggi idilliaci.

Ai lati della porta d’ingresso due stanzini foderati di pregiata boiserie e chiusi da pesanti porte di noce erano adibiti a confessionale. La perfetta insonorizzazione consentiva ai confessori di parlare ad alta voce senza essere uditi all'esterno e poter così assolvere dai peccati anche i penitenti di debole udito.
Gauss
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